venerdì 23 ottobre 2009

FARMACO

ho modificato una nuova canzone (Fango di Jovanotti)
per chi non conoscesse l'originale questo è il video ufficiale...
ed ecco il mio





FARMACO

Io lo so che l'omeprazolo non è il labetalolo
e così il lansoprazolo
Io lo so che l'omeprazolo non è il labetalolo

sotto un mucchio di nomi come Erlotinib
e Bortezomid, Gefitinib, Imatinib
mentre cammini per casa ripeti e intanto
leggi chiaro sulla faccia di tuo padre: "sembri un cretino"

perchè ripeti cose strane che capisci solo tu
Tacrolimus, Ondasetron, Tropisetron, Sirolimus
la tua lingua si accartoccia più del tuo pensiero
e ci metterai una vita se ripeti il libro intero

parli come un film straniero senza sottotitoli
e neanche ti ricordi l'Adalinumab,
Rituximab, Trastuzumab, Morfina ed altre cose,
sai solo dire che se troppe son pericolose

ma l'unico pericolo che senti veramente
è quello di non riuscire a ricordare niente:
Metronidazolo, Ciclosporina A,
Cefotaxime, Cefepime, la Ciprofloxacina

l'Interferone Gamma, Bretilio e Triamterene
La gravidanza da Rifampicina
tuo padre ti guarda ed alza gli occhi al cielo...
io lo so, è l'omeprazolo!

RIT x2
Io lo so che l'omeprazolo non è il labetalolo
e così il lansoprazolo
e rido, e piango e impazzisco dietro a questo e all'altro farmaco

il Professore è un film straniero senza sottotitoli,
gli appunti sono stralci di monologhi:
Muscarina, Naltrexone, Pancuronio, Sotalolo,
Ketamina, Fluoxetina, Fendimetrazina

e si inventa di tutto per riuscire a ricordarli:
nomi strani, rebus, sigle... è sicuro che sbagli
conti i nomi, ne hai studiati 423
ma rimani convinto che non serva a niente

non ti ricordi nulla più del nome e di che classe è
e non basta sei sicuro per salvarti
non saprai la dose di anestetico endovena
per evitare al paziente di svegliarsi, e di alzarsi
e di iniziare a lamentarsi

ma l'unico pericolo che senti veramente
è quello di non riuscire a ricordare niente,
di non riuscire a ricordare niente

una diagnosi per il dolore al petto
l'eparina per chi è costretto a letto
l'aspirinetta il warfarin per prevenire il reinfarto
ed il diazepam se vuoi sedare un matto

Rit x2
Io lo so che l'omeprazolo non è il labetalolo
e così il lansoprazolo
e rido, e piango e impazzisco dietro a questo e all'altro farmaco

giovedì 10 settembre 2009

IL TEST DI AMMISSIONE A MEDICINA


Tutti gli anni in questo periodo si aprono i test d'ingresso per le facoltà a numero chiuso e tutti gli anni, puntuale e sempre uguale, tocca vedere la carovana contro il test di medicina. Primari che sostengono che se ai loro tempi ci fosse stato il test non sarebbero mai passati (improbabile e comunque impossibile da verificare), genitori, cantanti, assessori, fattorini, panettieri, postini, tutti vogliono dire la loro su come sarebbe bello se il test non ci fosse, su come esso leda il diritto allo studio e tarpi le ali a giovani ambiziosi nati con la medicina nel cuore e il cervello al portafogli.


Quest'anno anch'io voglio aggiungere la mia opinione che si articola in tre punti:
1. IL TEST E' INDISPENSABILE
2. IL TEST E' UTILE
3. IL TEST VA BENE COSI' COM'E'.
Bella forza mi direte, io l'ho passato, come potrei essere contraria? prima di giudicare valutate ciò che dico.

1. IL TEST E' INDISPENSABILE
La ragione è molto semplice: non ci sono strutture per ospitare 3000 persone, nè professori a sufficienza. Non ci sono corsi opzionali dove la gente si disperde come a Lettere, nè le lezioni sono facoltative come a Giurisprudenza. Servono attrezzature, materiali e laboratori, per non parlare dei tirocini.

2. IL TEST E' UTILE
Vogliamo forse togliere la possibilità a tutti coloro che si sono trovati iscritti "a forza" o senza convinzione di tornare a casa e dire: "Papà, mi dispiace, sarei diventato medico tanto volentieri per ereditare il tuo studio e dar lustro al nome della nostra famiglia, ma purtroppo le domande erano davvero impossibili, non ho passato il test e mi iscrivo alla facoltà che mi pare".

3. IL TEST VA BENE COSI' COM'E'
ecco le principali critiche rivolte al test com'è concepito ora e perchè non ci sono alternative plausibili.

IL TEST NON VALUTA BENE LA PREPARAZIONE INDIVIDUALE
Due cose servono per entrare a medicina: Volontà o Preparazione.
Se hai la Preparazione (e non discuto che a volte sia una questione di ambiente più che personale) passi il test senza problemi.
La prima cosa che qualunque persona a cui parli del test di medicina dice per sostenerne l'inutilità è: "Ma no, prendi per esempio mio cugggino, c'aveva la media del 9 al liceo e non ha passato il test".... ergo (sottintendono) il test è da buttare.
NO, ergo tuo cugino se davvero vuole diventare medico ci mette un po' di Volontà, si iscrive a qualche facoltà scientifica e l'anno successivo risponde correttamente a tutte le domande di chimica, biologia e matematica ed entra lo stesso.
Sia ben chiaro che non discuto sulla preparazione del cugino in questione, conosco personalmente persone estremamente preparate che per qualche motivo hanno fallito il test. Alcuni ci hanno riprovato con successo, altri hanno lasciato perdere, in entrambi i casi nulla di tragico.

LE DOMANDE DI CULTURA GENERALE SONO ASSURDE
Seconda obiezione da manuale: "Ma a che serve sapere la data di nascita di Giuseppe Verdi per fare il medico?"
risposta: a niente, le domande di cultura generale hanno due scopi:

- in primo luogo limitare l'incidenza dei cugini di cui sopra. Se le domande fossero tutte di biologia, biochimica, anatomia e fisiologia passerebbero quasi solo coloro che hanno già frequentato un anno di università in un'altra facoltà scientifica e man mano diverrebbe una prassi, un neo-diplomato non avrebbe alcuna possibilità di superare il test al primo tentativo.

- in secondo luogo servono a valutare la preparazione effettiva del candidato. La cultura generale, così come la logica, grazie a dio, non si prepara sugli alfa-test (benchè c'è chi ci provi) e se anche sapere chi era Enrico IV non garantisce di diventare un buon medico indica però una certa propensione allo studio metodico che è indispensabile per affrontare 6 anni di medicina.

SAREBBE MEGLIO STABILIRE A FINE ANNO ACCADEMICO CHI RESTA E CHI SE NE VA
Sembrerebbe fantastico, tutti insieme per un anno di prova, ciascuno pronto a dare il meglio di sè e chi alla fine ha sostenuto più esami con la media più elevata resta, tutti gli altri a casa.
Un'idea geniale.... se non ci si riflette troppo.

- Tralascio le motivazioni logistiche di cui al punto 1

- tralascio le ipotesi peregrine su cosa possano fare coloro che hanno fallito la prova (riprovarci è escluso, preparando gli stessi esami per il secondo anno di seguito sarebbero avvantaggiati, ma come spiegargli che hanno perso un anno così, senza neanche una seconda possibilità?)

Vi chiedo, invece, uno sforzo di immedesimazione. Come sarebbe la vita per un anno accademico sapendo che il tuo vicino potrebbe fregarti il posto da un momento all'altro?
Gli passeresti gli appunti, gli spiegheresti ciò che non ha capito, studieresti con lui sapendo che è un tuo diretto concorrente? Sapendo che tutto ciò che fai per lui potrebbe aiutarlo ad arrivare ad uno di quei 300 posti relegando te al 301simo?
E dopo questa fantomatica selezione come fare amicizia con qualcuno che hai odiato per un anno perchè aveva voti migliori dei tuoi?

resta l'ultima possibilità
SI POTREBBE SELEZIONARE CON DEI COLLOQUI
Non sono contraria per principio, mi sembra una buona idea, è un metodo che utilizzano in UK ad esempio. 
Ci sono dei libri anche per quello.... ti spiegano cosa dire e cosa non dire, come vestirti, come tenere le mani, quale atteggiamento adottare e soprattutto includono la top ten delle risposte alla fatidica domanda "Perchè vuoi diventare medico?", domanda per cui non dovrebbe esistere una risposta giusta, ma a quanto pare quella che ti viene dal cuore è sempre sbagliata.

C'è solo un piccolo, insignificante problema. Considerate la situazione. Ogni anno su queste benedette 80 domande si scatenano putiferi inenarrabili: studenti accusati di copiare, funzionari accusati di passare in anticipo le domande, medici che fanno il test apposta per non passarlo e raccontarlo in televisione, domande sbagliate o risposte ambigue... tutto questo per un banalissimo, innocuo compito a crocette. Cosa si direbbe se il tutto fosse affidato all'insindacabile giudizio di una giuria di professori e psicologi? Cosa si direbbe del figlio del primario che è stato preso (raccomandato) e di quello che non è stato preso (ce l'avevano col padre e si sono vendicati sul figlio). Il solito teatrino all'italiana che sarebbe bello, almeno in questo caso, non subire.

martedì 5 maggio 2009

IL PUNTO BLU DI PSICHIATRIA E LA SELEZIONE DARWINIANA


Lasciatemi passare per ripetitiva, ma la sessione esami si avvicina e, da buona previdente, ho cercato di stampare gli statini degli esami prossimi venturi.
Sapendo come funzionano le cose nella nostra facoltà ho fatto ricorso alle superiori conoscenze degli studenti più anziani per farmi spiegare l’ubicazione del punto blu più vicino. La spiegazione è stata all’incirca:

“Entra dal passo carrabile di via Cherasco, vai a destra senza entrare nell’ospedale, nel cortile trovi le scale che portano all’aula magna di psichiatria, sali, giri a destra e prendi il primo ascensore. Premi 2 e ti porta al quarto piano, esci ti fai aprire la porta del reparto, giri a sinistra e poi a destra e sei arrivato”.

Sembra facile e infatti lo è per la media delle indicazioni dell’ospedale. Però, mentre cerco di seguire a memoria le indicazioni scavalcando cavi e altre apparecchiature abbandonate, mi viene da pensare a chi possa essere venuto in mente di situare l’unica macchinetta stampa-statini nell’arco di un paio di chilometri in un posto così assurdo. Ora non dico che avrebbero dovuto affiancarla al bancomat san Paolo all’ingresso, ma da lì al quarto piano di psichiatria ci sono delle sensate vie di mezzo; anche senza troppo sforzo di immaginazione si pensa facilmente a un milione di posti più comodi dello stretto corridoio pinzato tra due reparti psichiatrici al quarto piano di un’ala secondaria dell’ospedale.

Quindi ho pensato che ci dovesse essere un motivo ragionevole per siffatta decisione e, con un’accelerazione ideica forse ispirata dal luogo, in attesa del mio turno per stampare, sono riuscita a scovarne uno. Ebbene la mia spiegazione è la selezione darwiniana.

Pensateci, per riuscire nell’impresa di trovare il punto blu e stampare gli statini sono necessarie innumerevoli doti:
  • per prima cosa bisogna avere ottime conoscenze quali studenti degli anni precedenti o medici del reparto, con le sole indicazioni della guida dello studente è matematicamente impossibile trovare la malefica macchinetta.
  • Altrettanto indispensabile è un ottimo senso dell’orientamento (per motivi strettamente correlati all’architettura dell’ospedale di cui parleremo diffusamente più avanti è estremamente facile perdersi).
  • Non guastano una discreta prontezza di riflessi per dribblare pazienti psicotici e caposala infuriate, pazienza infinita (perché sembrerà impossibile ma c’è coda), discrete capacità informatiche (come ogni punto blu che si rispetti non funziona quasi mai).
Ne consegue che solo i migliori, quelli che posseggono tutte le caratteristiche su menzionate o quelli più fortunati che causalmente si imbattono nel punto blu, riescano a sopravvivere, a stampare gli statini e a completare la propria carriera universitaria, tutti gli altri soccombono all’impietosa legge della selezione naturale.
Sospetto che gli pneumococchi all’epoca di Fleming abbiano avuto vita più facile.

sabato 25 aprile 2009

L'ETERNA LOTTA TRA LO STUDENTE E IL SUO STATINO


Vorrei conoscere l’inventore degli statini. Vorrei che solo per un minuto mi parlasse e mi spiegasse in quali disastrose situazioni mentali, cognitive e intellettive si trovava quando ha concepito questo mirabile sistema. Probabilmente ce l’aveva a morte con il mondo e in un attacco di misantropia anziché suicidarsi o ritirarsi in meditazione come uno stilita ha deciso di regalare agli studenti universitari un motivo di lamentela perenne.

Due parole per spiegare cos’è uno statino a chi non ha avuto contatti col mondo universitario negli ultimi 10 anni.

Dicesi statino un foglio adesivo che riporta in duplice copia i dati dello studente e del corso, va stampato da uno dei famigerati punti blu e, una volta sostenuto l’esame, viene attaccato sull’apposito registro dove, compilato con voto e firma di professore e studente, serve da certificazione per la segreteria.

Nella contorta mente del suo inventore il sistema serve essenzialmente a verificare l’avvenuto pagamento delle tasse da parte dello studente; infatti in caso di situazione tributaria non regolare il punto blu si rifiuta di emettere lo statino e lo studente è impossibilitato a sostenere l’esame.

Fin qui sembrerebbe quasi un’idea sensata e applicabile, se solo fossimo in un futuristico campus del Nord Europa. Invece siamo a Torino e ci sono alcuni inconvenienti che, evidentemente, non sono parsi rilevanti a chi si è incaricato di progettare il sistema, e che restano perennemente irrisolti.

Punto primo: i punti blu sono pochi, soprattutto per le facoltà scientifiche. In quest’area, che si estende per un paio di chilometri, ci sono 5 macchinette distributrici di statini per un totale di 6-7.000 studenti. Non ci vuole un Tiresia a prevedere che le code che si formano in periodo esami siano insostenibili.

Punto secondo: la manutenzione dei punti blu suddetti è pessima. Non è quindi raro, anzi è la norma, che delle cinque postazioni a disposizione una almeno sia spenta, due abbiano finito la carta adesiva, una sia bloccata per errore di sistema e l’ultima abbia un qualche malfunzionamento, ad esempio del mouse. Mi sono trovata personalmente in questa condizione, dopo aver chiamato l’assistenza (il tecnico si è limitato a smontare il tutto, togliere la rotella del mouse, soffiarci sopra e rimontarla) il problema non è stato risolto. C’erano una ventina di persone in coda che avevano la necessità assoluta di stampare qualche statino, tutti a fissare la freccina del puntatore del mouse, nella speranza che potesse muoversi per telecinesi e abbreviare in qualche modo il tempo necessario per l’operazione. Sarebbe stato davvero comico, se solo non avessi avuto voglia di piangere.

Come se la situazione di per se non fosse abbastanza grave ci si mette anche la superstizione universitaria. Una volta si diceva che chi sale sulla Mole durante l’università non si laurea più, ora si dice che chi stampa lo statino in anticipo non passa l’esame. Vi lascio immaginare le affannose ricerche di un punto blu funzionante la mattina dell’esame e le penose implorazioni al professore: “La prego, non funziona nessuna macchinetta” “Registri a mano” “registri domani” “vengo a casa sua domenica mattina, ma mi registri il voto anche se non ho lo statino”. Qui la colpa è dello studente, direte, e ne convengo, ma l’insieme di circostanze fa sì che sia impossibile essere relativamente certi di stampare uno statino tra dicembre e febbraio e tra maggio e luglio (cioè negli unici periodi dell’anno in cui è necessario).

La stessa difficoltà che si ha nell’impossessarsi di uno statino facilita l’instaurarsi di un circolo vizioso per cui chi non è superstizioso, appena per caso si imbatte in una postazione libera e funzionante inizia a stampare tutto quello che potrebbe servirgli di qui a sei mesi. Stampa l’intero carico didattico, chiama gli amici e chiede se anche loro ne hanno bisogno e, terminata l’operazione, si allontana con un plico di fogli adesivi nascosto sotto la giacca a mo’di contrabbandiere.

Faccio infine notare che come sistema è piuttosto costoso. La carta adesiva prestampata con il logo dell’università in filigrana non deve essere troppo economica, e molti statini per i motivi di cui sopra vengono sprecati. Perché scadono ogni tre mesi (chissà perché poi), perché nel frattempo li si perde, perché non si passa l’esame (l'avevo detto che porta sfiga), perché quando un foglio si incastra nella stampante vengono fuori degli obbrobri macchiati e sporchi che non si possono usare.

Allora mi chiedo, se proprio vogliamo fare i tecnologici… perché non stampare gli statini su carta normale, possibilmente da casa, e rendere adesivi i registri? O piuttosto torniamo alla pergamene, assoldiamo degli scriba che si occupino di trascrivere a mano i dati sul registro, il loro stipendio sarebbe di certo più meritato di quello degli informatici dei punti blu.

venerdì 10 aprile 2009

DIVENTARE GRANDI




Da qualche settimana abbiamo detto addio al Polo Biologico e ci siamo trasferiti alla periferia dell’ospedale. Al di là della mia personale preferenza per le aule ottocentesche di via Giuria a quelle carcerarie, interrate e claustrofobiche di via Santena, è uno spostamento ricco di significato. Siamo al giro di boa della carriera universitaria, le conoscenze scientifiche di base si danno per acquisite ed iniziano le famigerate “cliniche”.
È un semestre di sospensione, così come sospesa è la sistemazione: non lontana dall’ospedale (come era negli anni passati) ma non ancora Dentro (come sarà nei futuri).

E’ un passaggio che si attende per anni, già dal secondo semestre del primo anno, quando l’entusiasmo iniziale dovuto alla novità della vita universitaria in parte si è smorzato e ci si inizia a chiedere “A cosa mi serve studiare Questo?” e soprattutto: “Me lo ricorderò quando sarò dottore?”. Da allora si inizia ad aspettare questo momento, queste maledette cliniche, quando finalmente si studierà qualcosa che serve, che fa diventare medici seri e utili. Poi ci si accorge che le lezioni sono quello che sono, non si possono fare miracoli, per imparare non bastano i libri e allora subentra un attanagliante senso di inadeguatezza.

Per la prima volta viene meno il pensiero consolatorio “Anche se dimentico la formula di struttura della vitamina B12 nessuno morirà per questo”, sostituito dalla consapevolezza che quello che il professore sta cercando di spiegare in questo momento, mentre tu proprio non riesci ad ascoltare e sei sempre più attirato dal racconto delle prodezze del tuo vicino, quello sì che servirà, fa parte sicuramente delle cose che un medico dovrebbe sapere. Per di più ce ne sono molte altre di cose che si dovrebbero sapere e che però non saprai perché saranno trascurate dal professore, perché le dimenticherai, perché non le studierai e nessuno se ne accorgerà, perché le lezioni sono noiose o perché l’esame è facile.

Però uscito da qui sarai il Dottore… Il Dottore ha studiato sei anni… il Dottore sa!... Se lo dice il Dottore… C’è un Dottore in sala?... Il Dottore ha sempre ragione…Chiamate un Dottore!... Dottore mi fido di Lei….

Ebbene, il Dottore è in grado di avere per le mani la vita di un essere umano?

È un concetto con cui si impara a convivere, viene usato come sprone da quasi tutti i professori dei primi anni, ma nessuno studente ci crede nell’immediato. Nessuno pensa, a ragione, che dimenticare la struttura tridimensionale di un canale piuttosto che il grafico della resistenza arteriolare o il nome dei vasi del circolo di Willis possa compromettere una terapia (per quanto un sofista di media abilità saprebbe dimostrare il contrario). Ma poniamo che si tratti di dosare un farmaco o diagnosticare un tumore o una TVP… Poniamo che tu non ne sia in grado perché non ne hai mai visto uno, poniamo che abbia preso trenta di quell’esame ma non te l’abbiano chiesto, poniamo che non te l’abbiano insegnato.

La risposta a questa profonda angoscia esistenziale è arrivata per caso, una sera, quando leggendo le memorie di un giovane dottore mi sono imbattuta in questa frase dolceamara e non ho potuto che sorridere:


“Medical School, which is frankly a farce, was at best a subliminal education where at same stage, from these vast oceans of factual sludge, you manage to extract a representative and intuitive background idea of how things should be in the body. Then you supplement this with the practical stuff about what you really need to be a doctor, usually at 3 a.m. when you’re the only person around with even half a clue and all the punters kick off at once and the registrar is in bed. The system works. It works fine. Just don’t worry about it”*.

Ci proverò.



*Michael Foxton: "Bedside Stories, confessions of a junior doctor", The Guardian Atlantic Books, 2003

mercoledì 25 marzo 2009

AVVENTURE IN SEGRETERIA



Ore 10.25

Sei in corso Massimo, un sacco di gente si trova davanti a un edificio insignificante con la serranda abbassata, non si evince in alcun modo che si tratti della segreteria, lo sai, come tutti, perché qualcuno ci è stato prima di te e ti ha spiegato come arrivarci. Il discreto affollamento sul marciapiede non potrebbe assomigliare ad una coda neanche con immenso sforzo di fantasia. Sembrano di più persone che aspettano alla fermata dell’autobus, infatti le occupazioni sono le stesse: leggere il giornale, ascoltare l’iPod, mangiare snack, panini, polli arrosto, barattoli di pop corn, parlare al telefono, chiacchierare con il vicino ad altissima voce di affare strettamente personali ed imbarazzanti, bivaccare con sacchi a pelo, studiare.

Ore 10.30


Noti con piacere che la saracinesca si apre, puntuale. Improvvisamente il gruppo male assortito si compatta e si genera una mischia da rugby: i più bassi e mingherlini cercano di sgusciare tra le gambe degli altri, i più corpulenti spingono si fanno strada con la propria massa, i medi si tengono il detto latino in medio stat virtus e imprecano.

Scopo di tutto questa bagarre è raggiungere la macchinetta elettronica che dispensa i numeri per lo sportello: siccome siamo in Italia il concetto di coda è labile e incerto fino ad ulteriore certificazione. La certificazione in questione è fornita dal mostro tecnologico sopra descritto: un’unica macchinetta per le segreterie di Scienze MFN, Farmacia, Medicina, Odontoiatria e Scuole di Specialità. Poiché dall’apertura del cancello centinaia di mani (tra cui le tue) vi si sono gettate speranzose premendo pulsanti a caso, la macchina sputa biglietti a raffica che altre mani concitate afferrano, ignorando se si tratti del tagliando per il giusto sportello, e quindi la giusta facoltà. Il superlavoro in breve affatica la povera emettitrice che con un ultimo rantolo tira le cuoia gettando nella disperazione quelli che non sono riusciti fortunosamente ad impadronirsi di un biglietto.

Ristabilitosi un ordine sommario non ti resta che pregare nell’ordine:

  • di esserti fortunosamente impadronito del biglietto per la giusta segreteria
  • di non avere troppe persone davanti
  • che tutti quelli che ti precedono in coda debbano sbrigare pratiche veloci
non esiste, infatti, un tempio medio di attesa dopo il quale si può essere ragionevolmente certi di passare. Ogni persona potrebbe richiedere attenzione per trenta secondi o per tre quarti d’ora e lo sportello è uno solo. Così mentre la legge di Murphy inizia ad agire intorno a te e ogni sportello di ogni altra facoltà è più veloce del tuo inizi a guardare con aria interrogativa i tuoi vicini per capire se hanno la faccia di chi deve ritirare il libretto o il modulo dell’esenzione delle tasse o di chi deve farsi convalidare esami o (non sia mai!) consegnare la tesi. Nel secondo caso inizi a pensare se vale la pena assoldare un sicario per sopprimerli, poi realizzi che prima o poi toccherà a te (si spera) consegnare la tesi e, tremando al solo pensiero, lasci perdere.

10:45 C27

10:46 C27

10:48 C27

cosa diavolo deve fare questo C27??

Tra 12 minuti la segreteria chiude, hai lezione a due chilometri di distanza da lì e sei ovviamente a piedi, hai passato la pausa in quel luogo infernale rimediando graffi e lividi per impadronirti di un biglietto e rischia di essere tutto inutile. Inizi a maledire il C27 come numero (con tutti i suoi multipli e divisori) e come persona (con tutti i suoi avi fino al medioevo)

10:49 C28 dio sia lodato è il tuo turno

“Non deve rivolgersi a noi”

probabilmente è la peggior frase che si possa sentire in segreteria dopo “ma guardi a noi non risulta”. Questa settimana è la seconda volta che fai la coda con bivacchi, risse e attese annesse e la frase ha l’effetto di una doccia fredda in pieno inverno.

“Come sarebbe a dire non devo rivolgermi a voi?”

“Eh no, se lo statino è sbagliato deve parlare col professore, farsi certificare che lo sbaglio è stato suo, poi lui deve chiamarci, confermare e a quel punto possiamo cambiare il voto”

tutto questo perché due settimane fa, sfogliando gli esami sostenuti nella carriera on line scopri con orrore che il tuo voto di biologia risulta abbassato di due punti senza motivo apparente.

“Scusi potrei almeno vedere lo statino, così so cosa hanno sbagliato?”

almeno questo te lo concedono. Con l’aria di chi sta facendo un enorme favore a un San Tommaso incredulo ti mostrano uno statino, un foglio volante così come esce dal punto blu che li stampa. Ma non dovrebbero esserci dei registri? Non avrei dovuto firmare un registro? Mentre ti interroghi su questa singolarità burocratica, la segretaria, con l’aria di chi spiega le addizioni a un bambino poco sveglio, ti ammonisce:

“Vede? Qui in lettere c’è scritto il voto giusto, ma in numeri è sbagliato ed è uguale in entrambe le copie”.

Nell’ordine pensi:

  • come sia possibile che un professore universitario con una laurea e un dottorato non sia in grado di ricopiare un numero da un foglio a uno statino senza sbagliare
  • come sia possibile che il suddetto non faccia attenzione a quello che scrive
  • quale sia la funzione della doppia copia dei dati dello statino se poi quando si sbaglia si sbaglia in modo identico su tutti e due
  • se fra i duecento voti registrati quella mattina doveva capitare che sbagliassero proprio il tuo
  • fra le due cose non dovrebbe fare fede il voto in numeri?
Quest’ultima frase oltre a pensarla l’hai anche proferita verbalmente.

“No in caso di contraddizione bisogna chiedere conferma”

“Neanche se uno dei due voti è uguale a quello del libretto?” ormai le tue speranze stanno colando a picco come la portaerei in una battaglia navale sfortunata e cerchi di appigliarti ai rottami per non annegare.

“Il libretto non fa fede perché è falsificabile”. Affermazione quanto meno opinabile, ma ormai la tua mente è annebbiata dalla lunga coda e inizi a capire che è una lotta contro i mulini a vento, fai solo in tempo a pensare confusamente perché mai i professori firmino il libretto e perché lo si debba consegnare al momento della laurea se non è un documento attendibile.

“E cosa faccio?” decidi di alzare definitivamente bandiera bianca “Vada a parlare col professore, speri che si ricordi di lei e che confermi la sua versione e che ci avvisi e noi chiamiamo il professore, confermiamo l’errore e correggiamo”.

Nascondendo meglio che puoi la rabbia per esser stato trattato come un sicofante fraudolento, inizi a figurarti una nuova coda, una nuova rissa per il biglietto, nuovi e numerosi tentativi di rientrare nei pochi fortunati che hanno accesso allo sportello e sull’orlo della sincope, con tono implorante chiedi:

“Devo rifare la coda?”

“No chiami questo numero”

11.05


sei in ritardo per la lezione e probabilmente sarai fulminato da una gelida occhiata del professore che ti coglie a metà strada mentre tenti di scivolare con indifferenza in un posto in ultima fila, la burocrazia si è rivelata per l’ennesima volta in tutta la sua ottusità e neanche stavolta hai risolto il tuo problema.
Però non dovrai rifare la coda, tutto sommato si può considerare un successo.

NOTA: questo racconto non è fedele e, a parte le ovvie licenze, vorrei chiarire che la nostra segreteria non è sempre così. Lo è talvolta. Spesso. Ciononostante la vicenda raccontata è vera, anche non è successa a me, ma mi è stata riferita. Le coloriture derivano da altre molteplici avventure personali (e riferite) in quell'ameno luogo.

giovedì 5 febbraio 2009

MONTAROLO

metà dei miei venticinque lettori lo sa già, l'altra metà sappia che questa follia è nata in una sera di influenza. Non sapevo cosa fare e, si sa, la noia (e la febbre) fanno compiere azioni insensate. Mai come quella di pubblicare il tutto qui, me ne rendo conto, ma almeno per quello ho l'autorizzazione (vero?).
Bando alle ciance, si tratta di una canzone di De Andrè -il bombarolo- a cui ho impercettibilmente cambiato le parole.
di seguito video e testo. Per testo e video della canzone originale vi rimando a questa pagina


Chi va dicendo in giro che odio il mio lavoro
non ha capito nulla di niente neanche solo
che sono indipendente e che nelle mie ore
recito la mia parte, faccio l'attore;

ma lo studente fragile mi guarda con paura
vedendo che se sbaglia faccio la faccia scura
e non capisce mai che questo è il mio lavoro
eppure è facile, son Montarolo!

Salendo per le scale scelgo con attenzione
puntando il designato col celebre bastone,
vi sembra il giorno in cui la decisione è mia
tra la condanna a morte e l'amnistia;

in aula tante facce non hanno un bel colore:
quelli che terrorizzo si ammalan di terrore,
c'è chi ammutolisce, chi si nasconde al volo
perché faccio paura, son Montarolo.

Intellettuali d'oggi, idioti di domani
qui chi non ha cervello non mi passi per le mani
chè se non siete logici, si vede già a lezione,
dottori diverrete di confusione,

vi laureerete un giorno e avrete in cura dei pazienti,
ma per allora è certo che sarò fra i latitanti
io me ne scappo in Svizzera, che mi curino loro,
ma voi giammai mi avrete, son Montarolo!

Al collo tengo appeso un lungo elenco di studenti
dai quali giammai voglio esser preso per paziente,
neanche se sono in coma, e voi il solo dottore
rimasto sulla terra, meglio morire.

Appena rispondete a me in modo sbagliato
vi aggiungo a quella lista e vi sego difilato,
ma penso all'operaio che curerete solo
quando vi boccio, giuro! son Montarolo.

C'è chi lo vide ridere di fronte allo studente
sperso davanti a qualche battuta imbarazzante,
c'è chi lo vide urlare un torrente di vocali
verso chi compie errori "così banali",

ma questa messinscena è come fosse un gioco
costringere a studiare capendo ne è lo scopo,
ma poichè provocati si ama o si odia solo
non c'è una via di mezzo con Montarolo!

lunedì 26 gennaio 2009

IL MESTIERE DI PROFESSORE




Per più esami mi è capitato di confrontare i miei appunti con sbobine di anni passati (generalmente del 2003-2004) e mi sono accorta di questo inquietante fatto: indipendentemente dal professore, spiegazioni, esempi, frasi, battute sono identiche a quelle sentite in classe a quattro anni di distanza. 

Questo mi ha fatto per l’ennesima volta pensare all’analogia tra il mestiere di professore universitario e di attore. Ogni giorno davanti a una platea sempre diverso a recitare lo stesso pezzo, occasionalmente aggiustato qua e là, come è lecito a chi ne è l’autore, suscitando curiosità in attesa della reazione prevista o non prevista del pubblico-studente. Probabilmente anche i professori come gli attori sono in grado di percepire da piccoli segnali l’umore dell’uditorio, sanno già quante battute andranno perse, con quanta enfasi bisognerà caricare le parole perché penetrino, se ci saranno domande. Già, perché anche le domande si susseguono uguali di anno in anno e quelle fatte dai miei colleghi di quattro anni fa sono mostruosamente, sconcertantemente simili alle nostre. Certo il tutto è spiegabile considerando che le domande altro sono sono che reazioni di un pubblico omogeneo alle sollecitazioni impostegli. Tanto di cappello dunque ai professori che alla duemillessma replica del proprio show non fanno trapelare stanchezza alcuna, ma con un’abilità di consumati veterani del palcoscenico sono ancora in grado di suscitare emozioni nell’uditorio come fosse la prima volta. 

Non posso fare a meno di chiedermi però cosa provi un professore entrando in classe tutte le mattine, assumendo la propria priandelliana maschera e iniziando a recitare la commedia quotidiana, sempre uguale giorno dopo giorno, mese dopo pese, anno accademico dopo anno accademico. 

Daniel pennac professore-scrittore e infine attore per caso del proprio monologo “Grazie” descrive la propria esperienza teatrale così 




“Dopo qualche rappresentazione il testo cominciò a scorrere quasi indipendentemente dalla mia volontà. La voce era mia, i gesti erano miei ma io non c’ero più. Eppure quello sul palcoscenico non era un altro, ero proprio io, ma un io talmente corazzato contro gli imprevisti da aver inserito il pilota automatico: tutto scattava a comando, quello recitava la sua parte per cinquantacinque minuti, dava l’impressione di rivolgersi agli spettatori, ripeteva il testo senza pensarci, inanellando i paragrafi in ordine impeccabile, muovendosi, dissertando, ridendo, grugnendo, imprecando, lamentandosi, ringraziando[…] insomma a furia di italiane il testo mi aveva invaso e io avevo smesso di abitarlo.”
(D. Pennac, “L’Avventura teatrale”, Feltrinelli, 2007) 

Penso a quanti professori universitari abbiano scelto coscientemente di insegnare (mi rispondo: pochissimi) e quanti invece si siano ritrovati “per meriti accademici” risucchiati nel vortice spazio-temporale dell’insegnamento volenti o nolenti. 

Sì, perché immaginato dal punto di vista del docente l’insegnamento è uno strappo nel tessuto dell’universo, una vita che costringe a rivivere ogni giorno da capo allo stesso modo, mentre il tempo passa solo per te e gli altri restano immutabili. Ti ritrovi a tenere le stesse lezioni ogni anno con le stesse parole a degli eterni ventenni che non invecchiano mai, ti pongono sempre le stesse domande a cui rispondi meccanicamente. I

l tutto dà all’atmosfera i colori del deserto dei Tartari: un ufficiale-professore che si ritrova risucchiato dalla routine dell’insegnamento e quando si rende conto di star invecchiando è troppo tardi per congedarsi, la vita fuori non è più possibile perché tutto il resto è cambiato mentre l’ufficiale è sempre lo stesso, solo invecchiato. La vita non si è fermata ad aspettarlo, il treno è partito ed è tardi per rincorrerlo. 

Per questo i professori sono così restii ad abbandonare la propria cattedra-avamposto, sono convinta che ogni anno si ripetano “questo sarà l’anno buono, dimostrerò che tutta questa attesa ha avuto un senso, quest’anno i tartari attaccheranno”.