venerdì 22 ottobre 2010

SE ESISTE UN INFERNO E' FATTO COME IL CACAO. E IO SONO SPACCIATA

Un ringraziamento particolare e parte del copiright per questo post vanno a Giovanni Comoglio

Se esiste un inferno è fatto come il Cacao. E io sono spacciata
Al tornar della mente che si chiuse
dinanzi alla pietà d’i due cognati
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga e come che io guati

Dante, Inferno, VI 1-6

So che ho già scritto a riguardo dell’abominevole usanza dell’apericena, ma quanto detto è troppo poco per descrivere l’abiezione assoluta del cacao. All’apparenza il cibo è ottimo e abbondante, i cocktail sono meno marmellatosi del solito e il posto è carino. Eppure è un’esperienza terribile. 

Il Cacao, lo spiego a chi non ha mai avuto il piacere di stazionarvi, è un grazioso locale immerso nel verde del parco del Valentino, tutto terrazze, scalinate e alberi, foggiati nel complesso a guisa di cono di dantesca memoria. È un inferno sì, ma molto a la page, almeno da vuoto.
Solitamente il locale fa da discoteca, e una pure abbastanza esigente in termini di abbigliamento consono e portafogli guarnito. Due giorni a settimana (martedì e giovedì per chi vuole sperimentare) diventa però serata “apericena ingresso libero consumazione facoltativa 10 euro”. 

Alle 8 una folla di proporzioni bibliche attende che si aprano i cancelli. La coda è all’italiana: ogni gruppo che arriva si piazza a fianco ai precedenti tentando di scavalcare il maggior numero di persone possibile.
Alle 9 due buttafuori iniziano a selezionare con criteri imperscrutabili chi può entrare e chi no. Spezzano gruppi a metà mentre l’infinita fiumana di gente viene inghiottita dall’imbuto.
Gli amici che si separano a questo punto possono anche dirsi addio, difficilmente si incontreranno nel corso della serata. 

Varcati i cancelli si ha per un istante la visione complessiva di quanto accade all’interno del locale ed è a metà tra il gaio disordine del paese dei balocchi di Pinocchio e la bolgia di anime disperate della prima cantica di Dante con un pizzico di invasione delle cavallette e piaghe d’Egitto. Un alveare umano, un brulichio di gente che si affaccenda attorno a dei gazebo pieni di cibo, spostandosi in massa verso quelli più forniti e abbandonando con aria desolata quelli ormai vuoti. Tutti perfettamente coordinati, guidati dal più primitivo degli istinti: la fame. 

La lucidità della visione dura un momento, appena varcata la soglia si viene risucchiati e si diventa parte integrante della folla affamata. Paragonati ad altri apericena alcuni dettagli possono stupire: piatti e posate non sono di plastica ma rispettivamente di ceramica e metallo, i carrelli del cibo sono ben illuminati ed è quasi sempre intellegibile la composizione degli alimenti.

Ma poi ci sono gli avventori. 

Chi entra, almeno inizialmente, tenta di comportarsi in modo urbano, ma presto si ritrova circondato di buzzurri in camicia firmata e capello plastico che, armati di cucchiaio di portata, forchetta personale o delle mani, fanno man bassa di qualsiasi cosa capiti loro a tiro reggendo con la mano libera decine di piatti con tecnica da equilibristi di rara fama (e fame).
Il cibo non pare mai abbastanza per sfamare il carnaio, pentoloni da decine di chili di pasta vengono svuotati in pochi secondi, camerieri indaffarati trasportano da un capo all’altro della sala vassoi giganteschi seguiti perennemente da uno stuolo di disperati in maglietta di Armani.
I più audaci giungono a rubare il cibo al volo con le mani durante il transito del vassoio, consci che non riusciranno a seguirne l’intero tragitto senza essere travolti da altri tapini intenti nella stessa impresa. 

Ben presto ci si rende conto che dare un ordine sensato alla propria cena tipo antipasto-primo-secondo-frutta-dolce è non solo utopistico ma proprio impossibile e ci si arrangia mangiando quello che si trova, e pazienza se si tratta di prosciutto, fagioli, anguria, budino al cioccolato, pasta all’amatriciana e fritto misto… in quest’ordine.
L’unica regola è quella dell’hic et nunc, chi è restio ad assaggiare l’ananas prima degli spiedini potrebbe non averne più l’occasione al termine della cena. Questo scatena risse ed accaparramenti: gli amici più organizzati si scelgono un luogo di ritrovo e si sparpagliano ai quattro angoli della sala, tornando di tanto in tanto alla base, ciascuno con il frutto della propria razzia da condividere con gli altri. T

aluni scavalcano la coda senza troppi problemi. Accade così che mentre la truccatissima, zeppatissima, tiratissima e firmatissima sedicenne davanti a te si sta copiosamente rifornendo di peperoni fritti, sbuchi da sotto la tua ascella un piatto vuoto accompagnato dall’implorazione stridula “Dacci un po’ di frittura anche pe’zia Concetta!”.
Girandoti appuri che la zia in questione è una sessantenne bassa e sgraziata, che si pavoneggia in un vestito fantasia-tende-da-cucina neanche fosse a una sfilata di Valentino. Così mentre la sedicenne marchiata Dolce e Gabbana dal fondotinta alle mutande riempie senza scomporsi quattro piatti di salsicce, peperoni e olive ascolane per la sua numerosa famiglia, ti giri osservando per la prima volta gli avventori e non il cibo.

Ti rendi conto che palesemente i buttafuori selezionano a caso perchè in mezzo ad adolescenti emo e fighetti, studenti universitari ubriachi, trentenni rampanti che ridono sguaiatamente spuntano tentando di mimetizzarzi (piuttosto male a onor del vero) cinquantenni con pancia da birra in bermuda e infradito, zie concette in mise ancora più improbabili, allegre famigliole con l’aria di essere a un pic nic. I
l richiamo animale del cibo gratuito. Già, perché naturalmente quasi tutti tentano di evitare la “consumazione facoltativa”, chi nascondendo camelback sotto la giacca, chi imboscando mignon di vodka nelle borsette di Gucci.
Ovviamente i proprietari del locale sono di diverso avviso e, poco propensi a sfamare le masse di tasca propria, cercano in ogni modo di indurre la clientela a consumare. Il risotto ai frutti di mare sembra cotto nell’Adriatico tanto è salato, peperoncini interi saltano fuori un po’ dappertutto dal fritto misto all’insalata russa, dagli spiedini alla macedonia.

Qualcuno in preda alla disperazione tenta di ottenere un po’ d’acqua del rubinetto facendo gli occhi dolci al cameriere, ma i più stoici resistono o come me, sazi e disgustati dalla folla e dal frastuono a mezzanotte abbandonano il campo, lasciandosi dietro pile di piatti usati, polpette sbocconcellate, pavimento pieno di sugo e di coca-cola, vassoi vuoti e briciole ovunque e vanno alla ricerca di una fresca ed economica birra agli imbarchini.


giovedì 1 luglio 2010

ALTRO PIANO, ALTRA EPOCA


Ci sono dei momenti nella nostra università in cui un campus all'americana lo desideri con tutto te stesso...

Quando devi volantinare, ad esempio, e ti rendi conto che ti servono tonnellate di carta perchè le facoltà del nostro ateneo sono sparse ai quattro angoli della città: centro, periferia, quartieri residenziali e industriali della prima cintura inclusi.

O quando vorresti convocare un'assemblea e a Medicina 1 non sai dove farla perchè ogni dipartimento ha la sua aula (chiusa) che dà sulla strada, i cortili sono pieni di macchine (e sono all'aperto), in ospedale è come riunirsi al supermercato... Restano le gradinate di biotecnologie, l'edificio più simile a un campus reperibile nei paraggi, ma è dei biotecnologi e ci si sente fuori posto.

Oppure quando vorresti fare un annuncio importante e devi vagare per il quartiere, cercando di ricordare quale anno sta in quale aula e in quale periodo, sempre che non si sia in finestra esami, in tal caso bisogna battere la dozzina di aule studio e biblioteche disponibili.

Ma poi ci sono dei momenti per i quali vale quasi la pena di scarpinare per chilometri ogni volta che hai bisogno di una fotocopia o di un certificato della segreteria.
Ieri è stato uno di quei momenti.

Ho già detto cosa penso delle romantiche quanto scomode aule ottocentesche della nostra facoltà... ebbene mi trovavo a studiare in una moderna biblioteca adiacente ad una delle suddette (magia dei contrasti all'italiana) e girovagavo senza meta durante una pausa. Chi di voi ha un metodo di studio peripatetico se cosa significa cercare un luogo abbastanza spazioso e tranquillo dove poter liberamente camminare ripetendo quanto appreso.

Ero appunto alla ricerca di un luogo simile quando mi sono trovata davanti a delle scale. Scale che ho visto migliaia di volte e usato spesso negli anni passati come scorciatoia tra il piano terra e l'interrato finchè non decisero di chiudere una delle porte.
Mai, però, avevo pensato di salirle. Ieri, invece, complici la poca voglia di tornare al buio a studare e il desiderio di sentirsi un po' Indiana Jones mi sono ritrovata in cima alla rampa quasi senza accorgermene e ho scoperto un luogo affascinante quant'altri mai.

Sul muro di fronte slogan in vernice rossa:
lotta continua per il comunismo
un nuovo modello di sviluppo, lotta continua dappertutto
per un'alterativa rivoluzionaria democrazia proletaria
Resti di un'occupazione di trent'anni fa.


In una stanza con le travi dipinte dello stesso rosso campeggiano manifesti di democrazia proletaria sull'Italicus, l'aborto, il '68, la DC. Una scala a pioli abbandonata, una cucina con lavandino, fornello e cappe, il tutto ricoperto da una spessa patina di polvere, intoccato da decenni.



Poco oltre le spesse travature di legno che sorreggono un controsoffitto di assi mi fa capire di essere al di sopra dell'aula magna ottocentesca summenzionata.

Ancora oltre un corridoio da film dell'orrore, un'infilata buia di porte, lacerata a tratti da lame di sole che penetrano dai lucernai. Al fondo un portone borchiato sbarrato.


E' in momenti come questi che il campus della Columbia University, il villaggetto con dormitori e viali di ghiaia che si perdono tra le aiuole e i prati e conducono ai vari dipartimenti, alle aule e ai negozi non suscita in me alcuna invidia.
Tanto basta alla mia indole storico-avventurosa per essere soddisfatta. Se ne riparla al prossimo volantinaggio, naturalmente!


Per la cronaca: durante la minuziosa esplorazione hanno chiuso il portone da cui ero entrata e ho rischiato di rimanere bloccata trasformando la perfetta ambientazione cinematografica in un thriller vero e proprio. Invece, per puro caso, era aperta un'altra porta che solitamente è sprangata. Almeno questa volta fortuna audaces iuvat è il caso di dirlo...


mercoledì 31 marzo 2010

CHI SE NE FREGA DELLE ELEZIONI, TANTO IL MONDO FINISCE NEL 2012



Basta, in questi giorni ho fatto indigestione di articoli di politica, di svisceramenti del perché e del percome la lega ha aumentato i propri consensi, la sinistra non si sa proporre come valida alternativa, i grillini sono degli irresponsabili che per non fare la tav ora si beccano anche il nucleare e chi più ne ha più ne metta... ho letto decine di analisi: talvolta interessanti, qualcuna sensata, altre divertenti, molte amare, ma adesso basta.

Mi sono stufata. Ho pensato adesso vado da Blockbuster e noleggio un film idiota di quelli pieni d’azione che ti impediscono di pensare alla realtà per qualche ora. Non c’era molta scelta in verità, i videonoleggi ormai sono in via d’estinzione, ma essendo io sprovvista di fox-sky-mediasetpremium o di una adsl a fibra ottica mi sono dovuta accontentare e la mia decisione è ricaduta su 2012. Filmone americano non impegnativo, ho pensato, ma neanche comico (dio sa quanto sono tristi le commedie quando sei depresso).

Purtroppo le mie speranze sono state deluse, in pieno. Non erano passati cinque minuti che già mi ritrovavo furiosamente a pensare. Per chi non ha visto il film e ha intenzione di farlo in un prossimo futuro (credo siano pochi) sappiate che da qui partono degli spoiler, anche se la trama è così esile che non perde nulla ad essere raccontata.

Vediamo un po’: è il 2009 e un oscuro scienziato indiano scopre che alcuni raggi provenienti dalle eruzioni solari stanno trasformando la terra in un gigantesco microonde, il mantello si scioglierà e le falde della crosta terrestre inizieranno a scivolare e a spostarsi causando terremoti e tsunami e la distruzione dell’umanità entro il 2012. Irrimediabilmente, non c’è modo di fermare il processo. Cosa fa lo scienziato indiano? Ovviamente lo dice a un suo amico che lo racconta al suo capo che lo riferisce al presidente degli Stati Uniti. La storia deve essere convincente perché immediatamente il Presidente lavora a un piano.

Ed è qui che si inizia a riflettere… abituati a film come deep impact e armageddon dove un pugno di valorosi eroi è pronto a donare la vita per salvare l’umanità ingenuamente pensiamo a qualche soluzione:

costruire un gigantesco scudo spaziale che protegga la terra dalle radiazioni
inviare una navicella con uno specchio gigante a deviare i malefici raggi
costruire un varco spazio-temporale per riportare l'umanità al mesozoico e ricominciare tutto da capo in un mondo migliore
trovare qualche assurda soluzione fisica nucleare per fermare il processo

e invece no. Niente di tutto questo. L’idea più furba che viene in mente agli sceneggiatori è che tutto sommato salvare un milione e mezzo di persone su sei miliardi può essere sufficiente e quindi il mondo si dà alla furibonda costruzione di moderne arche di Noè.

I politici, ovviamente, pensano per prima cosa a salvare se stessi, il presidente USA convoca un G8 dove informa i leader mondiali del suo mirabolante piano. Tutti sono d’accordo sul non informare la popolazione per non scatenare il panico (e anche, immagino, per evitare legittime rivoluzioni e guerre per rovesciare i capi di stato egoisti).
Il secondo problema è come procurarsi i soldi per costruire le navi, dal momento che nessuno sa a cosa servono veramente. L’idea è semplice e geniale: aprire un’arca ai privati, ricconi disposti a pagare un miliardo di dollari a biglietto, 400.000 tra petrolieri arabi, mafiosi russi e criminali della peggior specie. 
Naturalmente pensano anche a mettere in salvo qualche capolavoro dell’arte e coppie di animali, proprio come nel diluvio universale. 
Oltre alle arche occupate dai manufatti e dai criminali, non è chiaro come siano riempite le altre, sicuramente ci sono i capi di stato del G8 (da nessuna parte nel mondo ci sono state elezioni tra il 2009 e il 2012 risparmiando così la briga di scegliere chi salvare tra il leader avvertito nel 2009 e quello eletto nel 2012) con la loro corte. I paesi non-G8 risultano dispersi: mezza Europa, il sud america, l’oceania, l’africa e buona parte dell’asia non avranno superstiti, tranne i ricchi criminali ovviamente.

Chi possiede un biglietto non può avvertire nessuno del pericolo, né salutare i parenti, coloro che nei 3 anni disponibili tentano di farlo vengono uccisi in circostanze misteriose.
Oltre ai capi di stato e alla loro corte si salvano ovviamente i manovratori delle navi e degli aerei che trasportano in salvo i capi di stato. Non so se sono una schiera sufficiente a riempire le due arche rimanenti, di certo si sa, perché viene detto, che nessun comune mortale, nessuno cioè che non sia stato raccomandato o abbia pagato viene salvato. 
Niente premi nobel, scienziati o letterati illustri, niente ingegneri, medici, operai, falegnami, fabbri, infermieri, contadini e altre categorie professionali essenziali, niente di niente. 
Viene spontaneo chiedersi come contano di ricostruire una civiltà con politici e multimiliardari, due categorie tra le più inadatte in assoluto ai lavori manuali. Il film purtroppo non giunge a darci la risposta, ma culmina in una scena di grande drammaticità: mentre interi popoli soccombono sotto i terremoti e gli tsunami, le 4 arche si apprestano a partire, ma l’ennesima scossa ne distrugge una.

“è l’arca 3, solo privati” fa sapere un tecnico 
“perfetto, freghiamocene” pensano a bordo dell’ammiraglia, tanto ormai i loro soldi li abbiamo usati, perché mettere a rischio le altre 3 navi per salvarli? 
per fortuna interviene l’amico dello scienziato che ha scoperto tutto (lui nel frattempo è morto perché il pilota che doveva andare a prenderlo non si è presentato, avrà pensato fosse più saggio salvare la propria famiglia). Ebbene il nostro eroe pronuncia un discorso toccante sull’umanità e su quanto l’essere uomini si esplichi soprattutto nell’aiutarsi a vicenda… tutti si commuovono a queste parole e per mettere a tacere la coscienza aprono i portelloni e concedono l’ingresso… a chi?
Ma ai criminali multimiliardari di prima, ovviamente.

Nessuno versa una lacrima per i 6 miliardi di uomini, donne e bambini là fuori, la buona azione quotidiana è stata compiuta, il rimorso è placato, non vedranno morire gente sotto i loro occhi, ma moriranno lontano, quindi è irrilevante. 
Davvero l’animo umano è così gretto e meschino? Ci comporteremmo meglio se succedesse lo stesso? 
Sono domande inevitabili da porsi a questo punto, ma questo film non è fatto per incutere inutili angosce nel pubblico, la sua conclusione è gioiosa: dopo la tempesta viene il sereno e i sopravvissuti escono sul ponte, fanno amicizia, respirano aria pulita e si congratulano per essere ancora vivi. Non un pensiero, una lacrima, un rimorso per gli amici, i parenti e i miliardi di sconosciuti rimasti uccisi, non una domanda tipo “è stato giusto comportarsi così?” “si sarebbe potuto fare di meglio?”, solo un gran sollievo e un grande desiderio di ricominciare, e ricostruire tutto uguale ovviamente.

Fine, sipario, applausi.
E no, non vale.

Per gioco ho provato a inventare dei 2012 alternativi. 

VERSIONE MARXISTA: il popolo scopre che i capi di stato stanno cercando di fregarlo, organizza la rivoluzione e rovescia tutti i governi mondiali. Poi si mette al lavoro notte e giorno e costruisce una flotta di navi per salvare il proletariato. Lasciando morire i ricchi e i potenti.

VERSIONE NAZISTA: tutti i popoli inferiori vengono schiavizzati per costruire le navi. Vengono accuratamente selezionati giovani ariani sani per dare origine a un nuovo mondo perfetto.

VERSIONE LEGHISTA: è uguale, ma a costruire le navi sono gli extracomunitari pagati in nero e a meritare i biglietti sono i veri padani dal sangue puro. Per questo basterà una zattera di legno a contenerli tutti.

VERSIONE DELLA SINISTRA ITALIANA: si convoca una gigantesca assemblea, si scambiano opinioni, si pensa a come fare per salvare il mondo, poi Berlusconi si offre per finanziare la costruzione di una nave per tutta la classe politica, tutti accettano felici, ma alla fine Berlusconi prende la sua barca, la carica di parenti amici e soprattutto di belle ragazze e se ne va da solo, lasciando gli avversari con un palmo di naso.

VERSIONE AMERICANA BUONISTA: mentre tutti sono nel panico il marine americano senza macchia e senza paura parte da solo rubando uno space shuttle alla NASA e inizia a girare in orbita attorno alla terra senza alcuno scopo. Alla fine scopre che se si schiantasse in mezzo all’oceano tramite una catena di reazioni impensabili il suo gesto fermerebbe la fusione del mantello e salverebbe l’umanità. Saluta la fidanzata con abbondanza di lacrime (di lei) e retorica patriottica (di lui) e si schianta, lieto di essere ricordato come un eroe.

Ecco, questa è una versione figlia degli anni ’70, perché quando alla televisione vedi che l’uomo sta atterrando sulla luna pensi che tutto sia possibile… anche che l’essere umano sia buono e non egoista e sia pronto a sacrificarsi per salvare i suoi simili. Invece no, sono passati decenni e su Marte non siamo arrivati, non ci sono i jet pack tascabili per andare al lavoro volando e nessuno si è ancora teletrasportato. Tutto quello che abbiamo guadagnato è internet e l’i-phone.

2012 non è uno di quei film sul futuro inquietanti e riflessivi come “GATTACA” e “minority report” che pongono interrogativi morali su problemi ancora lontani. Non è neanche catastrofista e oscuro fino allo spasimo come “io sono leggenda”, che non dà scampo al pessimismo e lascia allo spettatore il sapore amaro della sconfitta.

E' ambientato nel presente ed è più che realistico. È un ritratto dei tempi, se succedesse davvero sarebbe tutto così (salvo forse per l’aprire il portellone alla fine, quello credo che non lo farebbero mai). I protagonisti sono tutti uguali accomunati nell’adorazione del denaro. Non c’è più russia e stati uniti, buoni e cattivi come in 007, non ci sono eroi, ma neanche il pessimismo che segue a questa assenza.

Ma se neanche i film permettono più di sognare come si può pretendere che lo faccia la politica? Se tutti escono dalla sala cinematografica anziché profondamente inquietati dalle implicazioni di quanto hanno visto semplicemente soddisfatti perché hanno ammirato una limousine attraversare un palazzo di vetro e poi saltare indenne su una strada squarciata dal terremoto, come si può anche solo pensare che la stessa gente si preoccupi delle implicazioni morali delle sue scelte?

Detesto dover dire banalità, ma la nostra società è improntata solo ed esclusivamente sul denaro. Mezzo e unico scopo di tutto. Se ce l’hai puoi fare quello che vuoi, se non ce l’hai il tuo obiettivo deve essere quello di ottenerne il più possibile con ogni mezzo per poter poi fare quello che vuoi. Non mi addentro su complicati giudizi di valore e proposte di cambiamento, dico che ci sembra così normale che neanche ci facciamo più caso, neanche lo mettiamo in discussione, ed è terribile.

Così come terribile mi sembra lamentarsi che in Italia la sanità pubblica funziona male e andare a partorire nelle cliniche private perché lì c’è la stanza singola e la televisione, mentre negli Stati Uniti una donna con un ictus, col solo emisfero destro funzionante dopo aver chiamato aiuto deve preoccuparsi con sforzo immane che l’ambulanza la porti in un ospedale convenzionato con la sua compagnia di assicurazione, se no perderà tutto quello che ha per pagare le esorbitanti spese mediche.(*)

Ma in fondo ogni popolo – ed ogni tempo aggiungo – ha il governo che si merita, e no, non vale solo per la democrazia...


domenica 21 marzo 2010

IO ODIO POWER POINT





Io odio power point.
Quattro anni di lezioni universitarie mi hanno portato a questa incontrovertibile verità.
Ci sono sicuramente dei vantaggi nell’inarrestabile evoluzione tecnologica che ha portato dalle lavagne a gesso a quelle luminose e da queste a pc, proiettori… e presentazioni power point.
Non dico che siano sempre un male, dico che offrono una facile scorciatoia a chi non sa insegnare per mettere insieme una parvenza di lezione
Voglio dire: perfino io con una dozzina di slides ben fatte saprei tenere una lezione su un argomento che non conosco. O meglio saprei tenere quella che spesso viene spacciata per lezione.

Una volta non era così facile; per affrontare un centinaio di studenti armati solo di un gesso bisogna essere molto preparati, e avere le idee estremamente chiare su quanto dire e sui passaggi per farlo.
La lavagna non perdona, se a metà non sai più cosa devi fare o fai un errore qualcuno potrebbe anche accorgersene e chiedertene ragione. Invece con una comoda presentazione la memoria non vacilla mai e se la spiegazione è approssimativa prima che lo studente se ne renda conto si è già passati oltre.

Vediamo alcuni dei punti deboli dell’insegnare a mezzo di presentazioni ppt:

1.È impossibile seguire un ragionamento su slide.
Il ragionamento è già completamente dispiegato, invece sarebbe più facile per l’apprendimento che le formule chimiche si sviluppassero man mano, i grafici si componessero di una curva alla volta con la relativa spiegazione, persino gli elenchi sono più comprensibili se scritti punto per punto alla lavagna, per non parlare della risoluzione di equazioni o simili.

2.Se il professore “le passa” nessuno ascolta perché “tanto quello che dice c’è scritto sulle slides”
Se invece “non le passa” è una gara a chi copia più in fretta piuttosto che a sentire la lezione. 
Si tratta in ogni caso di una battaglia persa, perché il tempo che lo studente impiega a scrivere è enormemente più lungo di quello impiegato dal professore a leggere, figuriamoci se in questo passaggio di informazioni c’è tempo anche per capire!
Se il professore segue le slides ma ogni tanto aggiunge qualcosa nessuno fa in tempo ad accorgersene, perché tutti sono troppo intenti a copiare.

Non che le slides siano del tutto inutili: permettono a tutti di vedere, si possono riportare disegni complessi, fotografie, risultati di studi statistici… però andrebbero usate con moderazione.

In particolare:

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DOs

DON’Ts
Immagini di atlanti, diagnostica ecc

Scritte per esteso di 20 righe da leggere
Ricapitolazione per sommi capi dell’argomento della lezione o di un punto specifico dell’argomento

Intere lezioni costituite da elenchi incomprensibili a mo’ di indice del libro
Richiamo di una formula fisica o chimica
Svolgimento di equazioni o reazioni


-->


In breve le slides sono un utile strumento nelle mani giuste, se affiancate e sostenute talvolta dalla vecchia, cara lavagna. Nelle mani sbagliate diventano invece un ottimo strumento per non imparare a tenere una lezione decente.


3.Le presentazioni power point, eliminando il tempo necessario a scrivere (che può sembrare tempo morto ma dà la possibilità allo studente di seguire e con un po’ di fortuna di capire) danno l’illusoria sensazione di riuscire a coprire vaste aree di programma in pochissimo tempo.
Illusoria perché se il professore riesce a leggere degli schemi di 50 argomenti in un’ora non significa che lo studente ascoltandoli li abbia capiti tutti e 50! Ci vuole un processo di apprendimento che, si sa, è lento.
D’altra parte se fosse sufficiente la lettura di uno schema per capire un argomento i libri non sprecherebbero decine e decine di pagine laddove basterebbe un misero elenco.

Meglio allora focalizzarsi sulla spiegazione di un solo argomento difficile o fondamentale e demandare il resto al libro per il semplice motivo che se lo studente a lezione sente 50 argomenti e li deve riprendere da capo tutti e 50 sul libro a che serve andare a lezione? Laddove se se ne comprende almeno 1 sarà un punto di partenza e un metodo per gli altri 49.
Inoltre se il ragionamento si svolge lentamente è più facile riprendere il filo dopo una distrazione. Gli studenti sono umani e, si sa, si distraggono (ottimi professori sono quelli che non fanno distrarre l’uditorio, ma rari) se però nel tempo di dire l’ora al vicino il docente ha già detto 4 cose fondamentali per il proseguimento della lezione è impossibile da quel momento seguire il resto.
I miei appunti sono pieni di puntini di sospensione corrispondenti a “non ho più la benché minima idea di cosa si stia parlando”.


4.Ogni lezione inizia o termina con le fatali parole:“se non capite fate domande” ma se nessuno fa domande non vuol dire che abbiamo capito tutto, vuol dire spesso che ci abbiamo capito così poco da non sapere da dove cominciare per fare una domanda.
Anche perché una domanda per non essere stupida prevede che ci sia qualcosa da capire (quindi NON un elenco) e che il ragionamento per sommi capi sia chiaro, ma che un punto preciso di suddetto ragionamento risulti invece oscuro. La prima domanda che, invece, si legge negli occhi di ogni studente in questi casi è “potrebbe per favore rispiegare meglio tutto quello che ha detto nell’ultima mezz’ora di modo che possa capire quel tanto da poter fare una domanda decente?”
Prima o poi qualcuno avrà il coraggio di proferire questa domanda inespressa e allora ci sarà da ridere… o da piangere.


lunedì 8 febbraio 2010

LA PERVERSA CULTURA DELL'APERICENA



Capita da qualche anno a questa parte che qualcuno ogni tanto se ne esca con un:"Andiamo a fare apericena?".
Una volta si chiamava aperitivo, senza tante pretese, un bicchiere di vino e quattro tartine giusto per non bere a stomaco vuoto.
Poi accade che c'è chi si rimpinza di salatini al posto di cenare e lì nasce l'idea: fare pagare l'aperitivo un po' di più e offrire cibo più sostanzioso.
Si arriva però ad un masochismo inaudito e limiti inumani: un apericena costa oggi dai 6 ai 10 euro, poco meno di una pizza, ed è una lotta tra il gestore del locale che cerca di spendere il meno possibile e il cliente che ha pagato e vuole saziarsi, anzi, possibilmente vuole mangiare il triplo di quello che ha speso.

La prima regola, per il proprietario, è non servire bevande dissetanti; bandite birra e coca-cola, il vino è mezzo bicchiere scarso mentre i cocktail più gettonati sono il mojito con interi cespugli di menta e un tappeto di zucchero di canna (per rendere ancora più difficoltoso abbeverarsi a mezzo cannuccia) e il daiquiri frozen, una sorta di frullato alcolico con una quantità di zucchero e sciroppo da far venire il diabete solo a guardarlo.
Diffidare altresì dall'analcolico alla frutta della casa, che di solito è una brodaglia spessa costituita da una tale varietà di frutta (e zucchero) da acquistare quel sapore indefinito che avevano le caramelle tuttifrutti della nostra infanzia: buonissime, non si discute, ma totalmente inadatte ad accompagnare un pasto.
Esistono anche perversioni peggiori come questa (vi giuro che esiste e lascio a voi ogni giudizio): zucchero di canna, fragola e ananas frullati, succo d'ananas, gelato alla crema e pezzi di cioccolato.

Una volta ottenuto da bere si passa al cibo e la situazione non migliora di certo.
Anche qui la volontà del gestore del locale di far mangiare poco si esplica con la disponibilità di piatti di plastica lillipuziani, dello spessore di pochi micron e del diametro di una decina di centimetri massimo.
La vera abilità dell'apericena consiste appunto nel riuscire a introdurre in corpo cibo sufficiente a saziarsi nonostante le molteplici avversità.
Il tutto richiede una discreta abilità geometrica, senso dell'equilibrio e mano ferma. Perchè??
Ma per riempire i minuscoli piattini fino all'inverosimile, naturalmente!
Certo, in linea di principio nessuno vieta di riempire il piatto con una sola pietanza, consumarla tranquillamente, alzarsi, tornare al banco, servirsi di nuovo e proseguire così fino alla fine dei tempi, ma innumerevoli circostanze cospirano contro tale soluzione:

- di solito c'è una tale ressa accanto al cibo che l'idea di affrontare ogni volta una simile bolgia fa passare la fame

- il cibo sparisce a una velocità supersonica: basta dimenticarsi il pane, accorgersene e tornare indietro che quel cesto gigantesco pieno di rosette e sfilatini ormai non contiene che un misero grissino... neanche fosse passato un esercito di termiti fameliche.

- infine si presume che l'aperitivo sia un'occasione sociale, per stare con gli amici e scambiare due chiacchiere, se ogni tre minuti qualcuno si alza per riempire il piatto è impossibile mantenere una conversazione di qualsiasi tipo.

Stanti così le cose la maggior parte delle persone opta per riempire all'inverosimile uno o due piatti e farseli bastare per la serata.
Ci si avvicina alla zona cibo, dove una muraglia di persone impedisce la maggior parte dei movimenti e, armati di un micro-piatto di plastica, si cerca di servirsi nonostante la gente pressi da dietro e dai lati.
Le difficoltà ovviamente non sono finite, perchè in genere i locali che offrono l'apericena sono posti dove si va a bere e ballare, non più bar illuminati, quindi i tavoli delle cibarie si trovano sempre avvolti da una misteriosa penombra che fa molto atmosfera ma rende di fatto impossibile il riconoscimento dei piatti.
Se a ciò si aggiunge il fatto che la maggior parte delle pietanze è servito sotto forma di dadini, cubetti, striscioline e affini ne risulta l'impossibilità più completa di discernere la verza coi gamberi dai peperoni con i fagioli o dall'insalata di cipolla o differenziare la farinata dalla torta di carote al miele.

Accade dunque che, complici le ridicole dimensioni del piatto, l'oscurità dell'ambiente, la folla e tutto il resto, uno torni al proprio tavolo con un mano una piramide di cibo non identificato e tutto mescolato insieme.
Il sugo della pasta al ragù si fonde con quello del riso al tonno, ma i peperoni con i fagioli sovrastano il sapore di entrambi e sono ricoperti di grani del cous-cous alle verdure. L'insalata di gamberi e cozze è troppo vicina alla salsiccia con le patate e il sugo della polenta ha inzuppato tutte le crocchette dal contenuto misterioso. Il tutto è sormontato da quello che sembrava proprio pane integrale, ma si scopre con disappunto un ciambellone al cioccolato.
Se pensate che questa descrizione possa far gelare il sangue anche ai più indomiti mangiatori state dimenticando l'accompagnamento: quella brodaglia variamente alcolica e sempre dolcissima che si presume vi debba aiutare a mandar giù tutto questo cibo.

La conversazione tra amici è continuamente interrotta da dialoghi tipo:
"Cos'è quello?"
"Mah, non l'ho ancora capito però sa di pesce"
"Non sarà il salmone della pasta che ci è finito sopra?"
"Può darsi, ma potrebbero anche essere le cozze..."

oppure

"Che schifo! l'hot dog mi si è tutto inzuppato dell'olio del risotto alla pescatora!"
"Quello è niente... vuoi assaggiare la torta al cioccolato ai peperoni?"

e sperate di non essere allergici a nulla, o sono dolori!

Alla fine si ingurgita una massa variegata di sostanze al gusto tipico di "apericena" accompagnato degnamente da un frullato tuttigusti con la percezione sensoriale, immagino, più vicina possibile al genericissimo concetto di "cibo".

"Cos'hai mangiato questa sera?"
"Ho fatto apericena"
e una sola parola è sufficiente a giustificare lo sguardo sofferente del meschino che sente una massa di cemento sullo stomaco, completamente indifferente all'azione dei succhi gastrici e necessitante dell'ausilio di qualche altro potentissimo acido per essere ricondotto alla ragione.

Ma la settimana successiva, appena un amico propone un nuovo locale è di nuovo pronto a ricominciare... se non è masochismo questo!

lunedì 1 febbraio 2010

QUEL CHE CONTA E' LA SALUTE


Lo confesso, talvolta quando vedo l'amabile signore in scarpe di vernice che fa capolino nelle nostre case e si autodefinisce "il jackpot più alto del mondo" provo la tentazione di entrare dal tabaccaio e investire un euro per tentare la fortuna, non sia mai che toccasse proprio a me.
Deve essere il ragionamento che fanno tutti, una probabilità, per quanto piccola, esiste, quindi vale la pena di tentare.
Certo, nessuna delle cosiddette "leggi" dell'universo è perentoria, esiste sempre la seppur minima possibilità che un sasso vi torni in mano dopo che l'avete lanciato, figuriamoci quella di vincere 130 milioni di euro!
Sarà deformazione professionale, sarà amore per la matematica, mi viene spontaneo fare due calcoli:
la puntata minima dell'enalotto è 1 euro, che assicura due combinazioni.
la probabilità di azzeccare 6 numeri su 6 estratti tra 90 è la seguente

1/90 x 1/89 x 1/88 x 1/87 x 1/86 x 1/85

pari a circa 2,1 x 10^-12
ma noi giochiamo 2 combinazioni quindi
4,2 x 10^-12

pari a circa una possibilità su 250 miliardi.

Significa che per assicurarsi al 100% la vincita di 130 milioni bisognerebbe spendere 250 miliardi...
o che giocando 130 milioni di euro in schedine con combinazioni diverse si avrebbe solo una possibilità su 520 di riportarseli a casa.

D'altra parte, anche se come possibilità è irrisoria, quell'unica su 250 miliardi esiste e ciascuno di noi ha la possibilità, rinunciando a un caffè, di vincere.

Qui entra la deformazione professionale che mi costringe a confrontare questa possibilità con le altre che ciascuno di noi ha nella vita.

La Distrofia Muscolare di Duchenne, una malattia genetica, affligge 1:5000 nati vivi e comporta una progressiva perdita di funzione dei muscoli con inabilità a correre, a camminare e alla fine a respirare fino alla morte.
è circa 5 milioni di volte più probabile di una vincita all'enalotto

ma prendiamo una malattia più rara, la Malattia di Gaucher, un disordine metabolico che comporta l'accumulo a livello cerebrale di galattosidi con emorragie, atrofia muscolare, strabismo ed eventualmente convulsioni, demenza e atassia.
incidenza: 1/200.000
solo 1.250.000 volte più probabile di vincere all'enalotto.

potrei continuare per anni, ma immaginate che la probabilità di nascere con una qualunque delle migliaia di malattie congenite esistenti è la somma delle probabilità di ogni singola malattia... quindi ancora più alta.

Si suppone però che siamo tutti adulti sani, la fortuna al momento della nascita ha girato dalla nostra parte, quindi escludiamo le malattie congenite.
prendiamo invece quelle acquisite.

Morbo di Basedow o ipertiroidismo 1/700 (affaticamento, iperattività, depressione, sudorazione, palpitazioni e aritmie, infertilità, calo del desiderio, nausea, vomito, diarrea).
Non mortale, solo 357 milioni di volte più probabile della vincita all'enalotto.

Leucemia Linfoide Cronica 1/100.000 (2,5 milioni più probabile)

Feocromocitoma, tumore benigno del surrene che causa un aumento dell'adrenalina con picchi di ipertensione tali da farvi scoppiare le arterie del cervello. E' considerato rarissimo, 1/100.000 l'anno. Ogni anno è 2,5 milioni di volte più probabile sviluppare un feocromocitoma che vincere all'enalotto. Ma se giocate tutti i giorni allora è solo 14.600 volte più probabile.

prendiamo infine una malattia ridicolmente rara, l'emogobinuria parossistica notturna caratterizzata da anemia, emissione di urine scure al mattino, dolori ossei e articolari ed eventuali trombosi (anche al cervello).
2 casi per milione di abitante.
500.000 volte più probabile di una vincita al superenalotto.

Ecco perchè, ora, quando vedo il signore in vestito gessato e scarpe di vernice di cui sopra il mio primo impulso è scappare.

venerdì 22 gennaio 2010

LE MOLINETTE SONO PEGGIO DI HOGWARTS



Chi ha letto Harry Potter ricorderà:


“A Hogwarts c’erano 142 scalinate: alcune ampie e spaziose, altre strette e pericolanti; alcune che il venerdì portavano in luoghi diversi; altre con a metà un gradino che scompariva e bisognava ricordarsi di saltare. Poi c’erano porte che non si aprivano a meno di non chiederglielo cortesemente o di non fare loro il solletico nel punto giusto e porte che non erano affatto porte ma facevano finta di esserlo”

Alle molinette invece abbiamo scale che finiscono al primo piano mentre i reparti continuano fino al quarto, scale principali e scale di servizio, con innumerevoli gradini pericolanti. Ascensori che non si fermano a certi piani o che quando premi un pulsante ti portano ad un piano diverso da quello segnato, altri che funzionano solo con la chiave e quelli senza chiave che non si trovano mai.
Reparti con i soffitti di 10 metri e altri claustrofobici, reparti che si aprono in mezzo a un corridoio ma non sono allo stesso livello, quindi bisogna salire dei gradini. Porte con il codice che si aprono solo se contemporaneamente tiri la maniglia, ma è troppo lontana per arrivarci da soli, altre che trovi sempre aperte poi improvvisamente si chiudono e rimani intrappolato.
I reparti sono disseminati a casaccio, come i carrarmatini del risiko quando ci cadono sopra i dadi, la degenza può essere da un lato al primo piano, la sala operatoria al quarto piano del capo opposto dell’ospedale, gli ambulatori al piano interrato in un’ala ancora diversa e il day surgery in mezzo a un reparto che non c’entra niente.


In mezzo a questo marasma anche le indicazioni migliori sono inutili.


Terzo anno. Secondo semestre. Devo rintracciare la segreteria di cardiologia 1 e ho a disposizione l’esiguo tempo della pausa di metà mattina (mezz’ora).
L’informazione a mia disposizione è minima: il reparto sta in corso Dogliotti.
L’aula ovviamente è dal capo opposto. La strada più breve implica percorrere per intero il transatlantico.
Ho così rinominato un corridoio che attraversa l’ospedale lungo il suo asse principale emergendo a livello stradale in corrispondenza di anatomia patologica. Dà accesso a qualche reparto (pronto soccorso e radiologia ad esempio) e ha collegamenti per i principali edifici che non fanno parte del nucleo originario.
Dal momento che la nostra aula è vicino ad anatomia patologica e ci tocca attraversare l’ospedale ogni mattina è la prima scorciatoia che ciascuno di noi ha imparato (spesso a costo di ore passate a cercare la scala giusta per riemergere in un corridoio aperto e non in mezzo a un reparto).
Ciononostante attraversare il corridoio per intero richiede una dozzina di minuti; sempre meno che fare lo slalom tra medici, parenti, pazienti, letti e barelle nel corridoio del piano superiore.
La ricerca del reparto è un po’ più complessa: la prima indicazione riporta [freccia a sinistra] cardiologia 1 [freccia a destra]
Il che potrà anche significare che ci si arriva da entrambi i lati perché il reparto si estende per buona parte del corridoio, ma chissà dov’è la segreteria…
Punto sulla sinistra e mi va bene.
Seguendo le indicazioni giungo alle scale che portano fino al terzo piano.
Entro e scopro di essere a metà di un reparto.
Chiedo informazioni per raggiungere la segreteria e mi viene risposto che si trova al piano di sopra. Da lì, però, le scale non ci arrivano e l’ascensore neppure.
Le possibilità sono:
  • attraversare il reparto chiuso rischiando l'ira della caposala
  • scendere al pianterreno, proseguire nel corridoio, prendere le scale successive e salire al quarto piano (arrivando irrimediabilmente in ritardo).
Intrepida opto per la prima soluzione.
Attendo che qualcuno che conosca il codice della porta entri e lo seguo con aria indifferente.
La buona sorte mi arride e nessuno mi ferma. Giunta al fondo del reparto non trovo le scale. Pressata dal tempo stringente, rinunciando anche all’ultimo briciolo di amor proprio chiedo ai pazienti che prontamente mi indicano la direzione giusta.
Salgo un piano e mi trovo nel bel mezzo di una coda interminabile.
Ci mancava questa…
Mi metto in coda tra un paziente e l’altro e dopo un tempo geologico giunge il mio turno.
Scopro così – orrore e raccapriccio – che la segreteria universitaria è da un’altra parte, oltre il corridoio e ci si può arrivare senza fare coda.
Ah, saperlo! Missione compiuta in 40 minuti circa, ritardo calcolato: 40-30+12 = irrimediabile.


Il problema pare piuttosto comune, ecco cosa scrive in proposito Francesco Sartori in “Dall’altra parte” (Rizzoli, 2006)


“Ho esperienza dei grandi policlinici e ospedali clinicizzati perché ci ho vissuto o perché, per motivi di lavoro, li ho ripetutamente visitati. Il caos è totale. Le strutture originarie generalmente già inadatte sono state rese ancor più caotiche dai cambiamenti intervenuti in seguito, provocati più che dalle necessità che la medicina nel suo cambiamento comunque comporta, dagli appetiti dei medici in cerca di sistemazioni assurde. Sale operatorie ovunque, invece che raggruppate in un’unica piastra, servizi di endoscopia a decine quando ne basterebbe uno – ma ogni medico, ogni chirurgo ha voluto e ottenuto il suo personale -, studi medici mischiati alle stanze dei malati, servizi indecorosi, ascensori che non si sa dove arrivano, scale che non si sa dove portano, i reparti e i servizi di destinazione praticamente irraggiungibili. Sono i primi esempi che mi vengono in mente. La spartizione degli spazi, avvenuta senza regole, è quanto di più illogico e ingiusto si possa immaginare. Non è facile lavorare in questo conteso, dove dovrebbero svolgersi in modo armonico, l’assistenza, la didattica e la ricerca. Può sembrare ingeneroso citare il Policlinico nel quale lavoro, che peraltro pare sia uno dei meno peggio. Ma mi è sufficiente uscire dallo studio per imbattermi in qualche malato o in un parente che si è perso! Che non riesce a tornare nel suo reparto, che non è capace di raggiungere un ambulatorio, che addirittura non trova l’uscita. La cosa più triste è che, spesso non sono in grado io stesso, che ci sto da una vita, di fornire informazioni precise”.


Volete mettervi alla prova anche voi? Stazionate in un corridoio a caso con un camice e l’aria di non avere fretta… la vostra conoscenza dell’ospedale sarà testata in 10 minuti.
Se riuscite a indirizzare più di 5 pazienti che si presentano a voi con aria implorante, un foglio di indicazioni mal scritto, un’impegnativa o il nome storpiato di un medico siete già dei maestri.