C’è di buono che scrivo.
Ho frequentato il liceo classico e me ne vanto, ma, come per
la musica e per tante altre cose che ho lasciato cadere nel tempo per colpa
della medicina, non ho più quella vis nella scrittura che mi contraddistingueva
al liceo. Mi è rimasta solo l’assoluta necessità di scrivere, di riportare le cose
che accadono, ma lo faccio con difficoltà.
Di scrivere di getto a computer non sono capace. Il pensiero, per me, deve scorrere fluente dal cervello alla mano, uscire dalla penna e riversarsi sul foglio. Una volta mi riusciva bene, poi sempre peggio. Ma mi sono incaponita, ho continuato a riversare stentatamente sui miei quaderni le mie giornate, le impressioni.
Di scrivere di getto a computer non sono capace. Il pensiero, per me, deve scorrere fluente dal cervello alla mano, uscire dalla penna e riversarsi sul foglio. Una volta mi riusciva bene, poi sempre peggio. Ma mi sono incaponita, ho continuato a riversare stentatamente sui miei quaderni le mie giornate, le impressioni.
Ho sempre invidiato i blogger
che raccontano la propria vita in tempo reale. Io necessito di rielaborazione,
lunghissima rielaborazione prima di produrre un testo stampato. Per questo gran
parte dei miei post non ha caratterizzazione temporale. In un certo senso
questo è l’anti-blog, l’anti-diario.
Penso sia giunto tempo di rielaborare. Ci sono brani che
possono essere recuperati dalle nebbie del tempo, ve li proporrò in ordine
sparso sulla base dell’umore della giornata.
Questo è il primo.
18/11/2009
Oggi è l’ultimo giorno del primo tirocinio, tempo di
bilanci. Ho visitato quotidianamente un totale di 27 pazienti, alcuni per
qualche giorno appena, altri per più di un mese. Due sono morti, stessa
patologia, stessa età, stesso letto, stessa settimana. Non è come nei film,
dove la gente ha sempre la risposta pronta.
E’ un caso di sfiga clamoroso, a luglio il paziente vomita
sangue, fanno gli accertamenti, ha la cirrosi HBV+ con ipertensione portale ed
epatocarcinoma all’ultimo stadio. A metà ottobre capita nel nostro reparto.
Non c’è nessuna speranza – dice la nostra tutor
ma parla, sta bene! – a noi sembra impossibile
Non arriva al week end.
Ma lui lo sa?
La risposta ci arriva da sola.
Quattro studenti che giocano a fare il dottore da due settimane appena lasciati
soli in stanza con un malato terminale che a quanto pare sta benissimo. Si
lamenta della disorganizzazione del reparto, magnifica i termometri del pronto
soccorso, poi d’improvviso cambia argomento
“Ma voi che siete così giovani… quanti anni avete?”
21, 22…
“Chi ve lo fa fare di stare in un posto di sofferenza così? Parlare con gente
che oggi c’è, domani chissà… ci avete pensato? Vi sentite pronti?”
La mia compagna fa cenno di no con la testa perché già le viene da piangere
“Io non riuscirei a tornare a casa e dimenticare, a separare le cose, non ci
sono mai riuscito, se avevo qualcosa in sospeso continuavo a pensarci finchè
non era risolto”.
Che lavoro fa?
“Facevo” – sottolinea lui con aria triste
“Facevo una cosa completamente diversa e molto meno importante. Il contabile”.
Ma serve anche quello
“Certo serve” – alzata di spalle, seguita da lunga pausa.
“Io sarei pronto ad andarmene anche adesso, tanto ormai…”
A questo punto nelle serie televisive sui medici c’è sempre il dottore di turno
Carter, JD, Chase o chicchessia che dice qualcosa tipo “non importa quello che
si è fatto se lasciamo qualcosa di bello e viviamo quel che resta”
Il problema è che nella vita reale ti dici “Che ne so di quest’uomo? Che ne so
se ha avuto una vita felice, se ha una moglie, dei figli, degli amici… Come
posso fare il dottorino ventenne delle serie televisive?”
Così non gli ho detto la frase del copione né quel giorno né i successivi.
Il lunedì non rispondeva più.
Forse a qualcuno tocca sempre insegnare questa lezione ai futuri dottori e per
noi quattro sei stato tu.
Ciao Vincenzo.
per questo e per i post passati e futuri: i dettagli, le storie, i nomi e i luoghi sono stati lievemente modificati per renderli non identificabili in nome del segreto professionale.
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