sabato 25 aprile 2015

LA PRIMA GUARDIA NON SI SCORDA MAI



Inizi della specialità, primo sabato di guardia in reparto, dicono che i novellini siano sempre i più sfortunati, ma io non sono superstiziosa.

"Hai già dato un'occhiata al 7? è venuto il medico di guardia tre volte questa notte".
Il ruolo degli infermieri, nelle guardie festive, è essenziale. Ti trovi con trenta malati sconosciuti e scegliere chi visitare per primo non sempre è semplice.
Il paziente in questione è, ad essere ottimisti, in coma, con un braccio rigido come un tronco e l'altro plegico, senza tono muscolare. Prendo i parametri, misuro la glicemia, faccio l'elettrocardiogramma, quando sto per chiamare la radiologia arriva lo strutturato che mi toglie le castagne dal fuoco insistendo personalmente con i radiologi per una TAC urgente.

L'emergenza in medicina interna non assomiglia per niente ad ER, anche perché siamo due medici per trenta malati i quali sembrano essersi  accordati per lamentarsi in contemporanea.

La signora del letto 15 deve essere dimessa e a quanto pare abbiamo perso parte della sua documentazione clinica, ma io non ho mai visto lei né la sua cartella e se anche quest'ultima fosse rimasta in qualche luogo dell'ospedale sarebbe di certo impossibile trovarla di sabato quando tutto, tranne i servizi essenziali, è chiuso. Ai parenti, però, viene una crisi di panico quando lo comunico, così, mentre dalla radiologia chiamano per avvisarci che il nostro 7 ha un'emorragia cerebrale e altri venti pazienti attendono di essere visitati bisogna anche attivare una catena telefonica per tentare di svelare il mistero della documentazione perduta.

I parenti della signora al letto 6, invece, ci tengono a sottolineare che secondo loro ha bisogno di una coronarografia e mi tocca spiegare la differenza tra questa e la scintigrafia miocardica che è stata richiesta dai colleghi e perché nel suo caso si tratti dell'approccio migliore.

Poi c'è il signore al letto 9 che mi convoca d'urgenza per informarmi che vuole firmare ed andarsene. Intanto il 7 torna con la sua diagnosi di ictus e bisogna chiamare il neurochirurgo, impostare la terapia dell'edema cerebrale e spiegare per telefono l'accaduto ai parenti che sono in arrivo e per poco non si schiantano in macchina alla notizia.

Fa poi il suo ingresso in reparto un nuovo paziente da ricoverare, perché il pronto soccorso è sommerso e non può fare a meno di mandarci un tranquillissimo caso di crisi epilettiche recidivanti.
Mentre compilo la cartella alla meglio, con mezzo reparto ancora da visitare, torno a parlare con il 9 spiegandogli che sì, se vuole può tornare a casa a neanche 24 ore dal ricovero, ma in fondo è stato lui a recarsi in pronto soccorso perché non respirava bene e la speranza che risolvessimo il suo problema tra le 18 del venerdì e le 14 del sabato era piuttosto irrealistica.

"Dottoressa?"

No, non credo di poter sopportare un altro parente insoddisfatto del cibo, delle attenzioni, dei vicini di stanza.

Mi volto di scatto con l'aria un po' scazzata.

Quello che mi viene incontro con l'andatura un po' incerta, un bastone in una mano e nell'altra un pacco di dolci è il marito della 6, la signora che non voleva fare la coronarografia.

"E' stata così gentile a prendersi cura di mia moglie, sa, mia figlia e mio genero parlano tanto ma è perché ci vogliamo bene".

Mi porge il pacco.

"Tenga, ma prima di mangiarli, mi raccomando, ci canti sciuri sciuri così si credono che è siciliana anche Lei e si fanno più buoni".

domenica 12 aprile 2015

LA BUONA SQUOLA

Vengo da un'epoca in cui un qualsivoglia errore ortografico al liceo (classico) significava 4, indipendentemente dal contenuto del compito. Una volta scrissi strattagemma e mi vidi riconsegnare il tema con un fregaccio blu. Combattei per quello che non credevo un errore e mi salvai grazie al (sempre-sia-lodato) Devoto-Oli  il cui lemma riportava: "stratagemma sost. s. m.; anche popol. strattagemma". Il mio voto tornò sufficiente, ma imparai a scrivere stratagemma.
Ora so che i miei vecchi professori del liceo (classico!) non correggono più gli errori ortografici nei compiti di matematica e scienze perché "E' compito del collega di italiano...." il quale si giustifica "Se dessi 4 a tutti i temi con un errore non avrei neanche una sufficienza".

Primo Levi, diplomatosi nella mia stessa scuola nel 1937, era in grado di conversare in latino intendendosi perfettamente con un prete polacco*.
I diplomati del 2017 potrebbero non essere più in grado di scrivere poche frasi in corretto italiano.
Cosa diamine è accaduto nel frattempo?
Sarà colpa degli sms, dei videogiochi, di internet, della globalizzazione, dell'inglese?

Sarà colpa nostra?

Se entrate in una classe delle elementari o delle medie di oggi su venti ragazzini almeno quattro saranno certificati come DSA ovvero disturbi specifici dell'apprendimento, un gran calderone in cui rientrano dislessici, disgrafici, discalculi, disprassici.
Tento una piccola spiegazione per chi, come me, non è né neuropsichiatra né insegnante.

Agenore ha sei anni e frequenta la prima elementare. A un certo punto dell'anno scolastico la maestra si rende conto che Agenore è indietro con la lettura, fa indubbiamente più fatica degli altri bambini, eppure è tanto intelligente e capisce al volo le spiegazioni.
Ludmilla, invece, legge come una scheggia, ma fa molta fatica a scrivere e ogni volta incappa negli stessi errori: la b al posto della v, la m al posto della n.
Agenore e Ludmilla vengono valutati da uno specialista dei disturbi dell'apprendimento in età pediatrica e viene loro diagnosticata rispettivamente una forma lieve di dislessia e di disortografia. Entrano così nel circuito dei DSA: hanno (come da definizione) un funzionamento intellettivo di norma e un disturbo specifico dell'apprendimento.

Nella scuola del 1990 sarebbero stati etichettati come un po' lenti, la maestra avrebbe chiesto più spesso ad Agenore di leggere in classe e avrebbe convocato i genitori di Ludmilla per esortarli a farla esercitare a casa con i dettati.
Ma è preistoria.
Cosa accade nella scuola del Ventunesimo secolo?
Accade che l'insegnante è costretto per legge a "tenere conto delle specifiche situazioni soggettive di tali alunni "[...] attuando "nello svolgimento dell'attività didattica e delle prove di esame [...] gli strumenti metodologido didattici compensativi e dispensativi ritenuti più idoneiper evitare di trasformare in sofferenza il percorso scolastico e valorizzare le abilità proprie di ciascuno.

Così Agenore dovrà sempre essere interrogato e Ludmilla avrà un compito diverso da tutti i suoi compagni, con le domande a risposta multipla anziché aperta. In fondo quello che conta è che i bambini abbiano appreso il contenuto delle lezioni, non che sappiano per forza leggere e scrivere.

Un po' come dire che se non ho il fisico o il fiato di Stefano Baldini non importa, posso correre 10 Km invece di 42 e se arrivo entro lo stesso tempo del campione olimpico vincerò anch'io la medaglia d'oro (senza che, ovviamente, risulti da nessuna parte che ho corso 10 km o potrebbero discriminarmi).

Molto bello, molto egualitario.

Mi chiedo solo come farà Agenore tra dieci anni a leggere gli stati facebook dei suoi amici e come Ludmilla manderà un sms al suo ragazzo. Ma è una distorsione del mio antiquato modo di pensare: chiaramente il primo chiederà a Siri di leggerglieli e la seconda manderà messaggi vocali su whatsapp.
E un contratto? Agenore se lo farà leggere confessando di essere dislessico o farà finta di nulla e firmerà sulla fiducia?

A complicare il tutto nella classe di Agenore e Ludmilla ci sono anche Teofrasto e Berenice, due bambini con identici sintomi: fanno fatica a studiare, a memorizzare, ogni pochi minuti alzano la testa dal libro e si distraggono. I genitori di Teofrasto all'ennesima insufficienza lo portano dal neuropsichiatra. Quelli di Berenice non sono così attenti e si limitano a liquidarla con un "non ti impegni abbastanza".
A Teofrasto viene diagnosticata una dislessia lieve, diventa quindi un DSA e i suoi compiti in classe si fanno automaticamente più semplici. Poiché il bambino non è stupido, capisce subito che con questa nuova modalità di verifica gli basta studiare la metà per prendere 6, così regola il lavoro a casa in modo da assestarsi su un nuovo (più basso) livello di sufficienza e finalmente ha più tempo per la playstation 4 che i genitori gli hanno regalato in premio per i suoi nuovi successi scolastici.
Berenice, invece, arranca con i compiti in classe "normali" e colleziona un 4 dopo l'altro, al punto da rischiare di essere bocciata. Eppure i due bambini sono identici.

Forse questo è un po' meno egualitario.

Il fatto è che ciascuno di noi nasce più o meno fortunato e con più o meno doti e abilità, nessuno nasce onnisciente ed onnipotente.
Chi nasce gracile avrà difficoltà a primeggiare nel sollevamento pesi, chi è stonato farà fatica a suonare il violino, chi è disortografico farà fatica a scrivere.
Se sei stonato, però, sento già qualcuno obiettare, nessuno ti obbliga ad andare al Conservatorio.
Giusta osservazione, allora chiediamoci perché esiste la scuola dell'obbligo.
Esiste perché un tale, già nel 1859, deve essersi reso conto che non saper leggere, scrivere, fare di conto e parlare una lingua comune costituiva un handicap, ovvero non consentiva di vivere bene a questo mondo, più di quanto potesse esserlo non riuscire a correre o a cantare.

Non mi sembra sia necessario un ministro dell'istruzione per capire che chi ha difficoltà a scrivere non ha bisogno di essere esentato per legge dalla scrittura per il resto dei suoi giorni, ma ha bisogno di fare il triplo di esercizi per raggiungere un grado sufficiente. Poi magari non diventerà Proust, ma avrà lavorato negli anni per ridurre lo svantaggio e allora sì che la scuola sarà servita a qualcosa.
Solo che ovviamente per creare appositi corsi di sostegno per i disturbi più svariati servono fondi e competenze, mentre obbligare l'insegnante ad arrangiarsi da solo con 5 DSA diversi purché dia a tutti la sufficienza è gratis.

Consideri Renzi, se questa è una buona scuola.

Watterston aveva già capito tutto un sacco di tempo fa...


* Primo Levi, La Tregua, Einaudi, 1997

giovedì 2 aprile 2015

IL VOLO

E adesso?

Adesso che l'ultimo post ha totalizzato quarantamila visite raddoppiando da solo quelle degli ultimi sette anni?
Cosa scrivo?
Dovrei forse commentare, giustificare, spiegare, andarmi a infilare nel ginepraio della medicina difensiva per giustificare, sostenere, dibattere?

Ho ricevuto i commenti più svariati (e vi ringrazio per tutti).
Brava, ci voleva qualcuno che facesse capire che i medici sono uomini e che ci vuole umanità nella medicina.
Brava, io apprezzo sempre il cinismo.
Molto meglio di Gramellini.
Ecco perché non mi piaceva Gramellini.
Sembra scritto da Gramellini.
Ha ragione Gramellini.
Dovresti farlo leggere a Gramellini.

E invece sapete che c'è? C'è che non ho voglia di rispondere, di spiegare, di argomentare.
Le parole stanno lì, nella loro evidente ambiguità di interpretazione. Fatene cosa volete.
Oggi ricomincio da capo, con un fatto brevissimo, che da tempo volevo condividere.


Il collega che smonta dal turno di notte ci si avvicina con la faccia stanca e una storia da raccontare. "Non l'avete ancora saputo?" si stupisce, il fatto è successo da poche ore, ma in ospedale il tempo non segue le leggi del mondo di fuori.
Inizia a raccontare come chi si toglie un peso dal cuore.
Questa mattina, saranno state le sei - comincia - è arrivato un ragazzo sui trent'anni. Ieri sera era a casa con suo figlio, di circa due anni, e il figlio, coetaneo, di una coppia di amici.
Stava giocando con i bambini a lanciarli in aria e riprenderli al volo.
Lancia uno, lancia l'altro - Il nostro narratore accompagna con partecipazione le parole con gesti eloquenti al punto che vediamo nitidamente l'eccitazione di un bambino immaginario tra le sue braccia.
Lancia uno, lancia l'altro, in un turbine di piccole grida gioiose, finché uno, il figlio degli amici, gli sfugge di mano.
I cento e passa chilometri che li separano dall'ospedale pediatrico sono percorsi invano.
Rimaniamo tutti senza parole per un momento.
L'uomo funziona così, a confronti, quei maledetti neuroni a specchio non fanno altro che ricordarti tutti i giorni che chi ti trovi davanti potresti essere tu.
Brivido collettivo al solo pensiero: la telefonata all'amico, i pianti, il rimorso. Tra dieci anni, tra venti, il figlio che cresce e ti ricorda di un altro che non crescerà. Immagini che ti passano davanti agli occhi in un nanosecondo.
Poi ti rendi conto del perché, anche quando questo ti sembra un mestiere di merda, anche quando non c'è niente da fare, anche quando sei solo spettatore privilegiato dei fatti che la vita ti mette davanti, vale la pena di farlo.
Perché quando tornerai a casa stasera ti verrà voglia di abbracciare un po' più forte quelli a cui vuoi bene e per loro sarà così, senza un motivo apparente.