sabato 20 giugno 2015

(CO)SCIENZA DELLA COMUNICAZIONE

Un medico che conosco ha ricevuto dalla sua banca una "Proposta di modifica unilaterale del contratto". Trovandola incomprensibile si è recato dal Direttore, ha appoggiato la lettera incriminata sulla scrivania del suddetto e gli ha cortesemente comunicato quanto segue: "Conosco bene l'Italiano, ho una laurea in medicina, insegno all'Università eppure non ho capito una virgola di quello che scrivete. Si può immaginare gli altri vostri clienti?".

Ecco, io penso che se i nostri pazienti fossero meno intimiditi dalla figura del Dottore spesso e volentieri ci direbbero la stessa cosa. Magari sono ingegneri nucleari con un dottorato al MIT, ma non per questo sono avvantaggiati rispetto al metalmeccanico nella comunicazione coi medici.

Negli anni da studenti tutti noi abbiamo goduto di una posizione privilegiata, abbiamo ascoltato "medici veri" spiegare diagnosi, illustrare procedure, descrivere condizioni, informare (o convincere) i pazienti, possedendo noi stessi una conoscenza della medicina di poco superiore a questi ultimi.
Forse abbiamo ammirato qualcuno per la sua chiarezza e pacatezza nel semplificare procedure complesse, ma quante altre volte ci siamo ritrovati a pensare che la spiegazione fosse incomprensibile o inquietante?
Magari ci siamo anche ripromessi di migliorare su questo aspetto, poi siamo cresciuti, siamo diventati medici anche noi e abbiamo ereditato lo stesso difetto.

Quando mia nonna era ricoverata all'ospedale, mia madre, un giorno, mi riportò il seguente bollettino: "Mi hanno detto che nonna ha i nervi scossi". Non riuscivo proprio a ricollegare l'immagine un po' sonnolenta di mia nonna con l'insufficienza renale a qualcuno con i "nervi scossi" finché non mi tornò in mente un pomeriggio di studio di fisiologia cardiaca.
"Mamma, non è che per caso ti hanno detto shock?"
"Sì, esattamente".
Mi ci era voluta Santa Wikipedia all'epoca di fisiologia per svelare l'arcano.
L'italiano comune ha ereditato questo orrendo anglicismo come sinonimo di scossa ("Giulio è stato licenziato in tronco: che shock!") mentre il medichese ne utilizza (in assenza di analogo italiano) il significato scientifico ovvero "grave e spesso irreversibile insufficienza circolatoria". Volendo scegliere un sostantivo dell'italiano comune per esprimere questo concetto ad un pubblico profano il termine migliore potrebbe essere collasso. 
Lo studente di medicina la prima volta che sente nominare lo shock in senso medico si chiede cosa sia, poi ne impara il significato come l'architetto impara quello di putrella e lo usa tranquillamente con i propri interlocutori, apparentemente del tutto immemore del ben più comune significato del termine e genera così ogni sorta di equivoci.

E già siamo fortunati rispetto al mondo anglosassone dove metà delle parole scientifiche, in quanto di derivazione latina, sono completamente diverse dal lessico di uso comune. Lieti del fatto che la differenza percepita in italiano tra addome e pancia e tra cranio e testa non sia così abissale, dovremmo quanto meno sforzarci di limitare l'uso degli acronimi. Cosa sia un ECG in ambio sanitario lo sanno anche i sassi, ma coi pazienti è sempre meglio sprecare quelle quattro sillabe in più per dire elettrocardiogramma, medesime sillabe che possono essere proficuamente investite per dire ecografia del cuore al posto di ecocardio.

Talvolta ho assistito a capolavori del tipo: "Il Suo parente ha dei piccoli ictus in ortostatismo di chiara natura emodinamica". L'unica parola comprensibile per il senso comune è ictus che evoca però vecchi paralitici, un messaggio non troppo rassicurante, soprattutto considerando che il senso della frase era "Ogni volta che Suo padre si siede non arriva abbastanza sangue al cervello e sembra che abbia un ictus finché non si sdraia di nuovo e tutto torna come prima".





Può anche capitare, però, che il problema non sia quanto sia comprensibile una frase, ma quanto sia emotivamente accettabile. "Domani deve fare la scintigrafia, è un esame in cui le iniettano un liquido radioattivo e poi la fotografano per vedere dove si accumula. Emanerà radiazioni per un po'". Descrizione scientificamente ineccepibile, discretamente comprensibile, ma a meno che il vostro paziente sia un fisico delle particelle (e poi ancora) alla parola "radioattivo" gli scorreranno sulla retina immagini di Hiroshima, di uomini in tuta bianca che maneggiano uranio con pinze lunghissime o, nella migliore delle ipotesi, dell'uomo ragno. Pazienza se per noi addetti ai lavori non c'è grande differenza fra un emettitore di raggi X che genera una TAC o un mezzo di contrasto che emette raggi gamma per la scintigrafia... per chiunque con una spiegazione del genere il primo esame sarà più accettabile del secondo.

Un chirurgo ha spiegato così l'intervento di paratiroidectomia ad una mia paziente: "E' molto facile, facciamo un taglio qui sul collo, isoliamo i vasi, togliamo queste ghiandole e gliele reimpiantiamo in un braccio".
Lui era serafico, lei terrorizzata. Per lui era odrinaria amministrazione, per lei un intollerabile frugare nelle profondità dei suoi organi.
Non si può negare che ciascuno di noi la primissima volta che ha visto mettere un catetere vescicale è stato percorso da un brivido freddo lungo la schiena o si è sentito a disagio vedendo il paziente contorcersi mentre il medico cercava con l'ago di pungere l'arteria del polso per un'emogasanalisi.
Dopo decine o centinaia di procedure, un così elevato grado di empatia col paziente per fortuna scompare, o non saremmo in grado  di svolgere il nostro lavoro serenamente, ma non possiamo scordarci che per chi ci sta di fronte "buchiamo un vaso del collo" o "mettiamo un tubicino nel torace per togliere il liquido e farLa respirare meglio" può essere di un'invasività insostenibile.

Partendo da questo mucchio di problemi di base, le cose non possono che complicarsi immensamente quando si tratta di comunicare notizie difficili. Gli eufemismi, ci insegnano, sono da evitare, altrimenti la speranza ha sempre il sopravvento. Ho visto mariti chiedere "Ma quindi come sta?" in risposta a un troppo sensibile "Sua moglie non ce l'ha fatta".
D'altro canto troppo spesso ci dimentichiamo che dopo aver pronunciato parole come morto, tumore, incurabile il cervello del nostro interlocutore sta girando a tremila per elaborare e accettare l'informazione e non è in grado di effettuare contemporaneamente lo sforzo (come abbiamo visto già gravoso) di comprendere i dettagli che gli stiamo fornendo.
Ma noi siamo in pronto soccorso e di là all'accettazione c'è uno che urla perché è in coda da sei ore e non è ancora stato visitato.

E' così che mi chiedo, quand'è che di preciso abbiamo perso la capacità di distinguere ciò che è chiaro a noi da ciò che è chiaro al paziente? Quand'è che abbiamo perso il contatto con la realtà? A forza di frequentare solo medici e studenti di medicina? A forza di sforzarci di non farci capire dai pazienti mentre parliamo tra noi? Perché non si tratta di avere doti comunicative particolari, che per un mestiere come il nostro sarebbero pure fondamentali, si tratta del puro e semplice atto di comunicare, ovvero generare una relazione in cui si trasmette un messaggio e si recepisce un feedback, possibilmente positivo, di quanto trasmesso.

Ricordate Paco Lanciano il modellinista di SuperQuark capace con un telo di gomma e quattro sfere metalliche di far comprendere a chiunque la teoria della relatività generale?
Forse dovrebbero chiamare lui a tenere il corso di comunicazione nelle facoltà di medicina. In fondo il diritto del pubblico di imparare la teoria dei buchi neri non è sicuramente maggiore di quello del paziente ad essere rassicurato e a comprendere cosa avverrà della sua salute.