martedì 16 ottobre 2018

Il numero chiuso a medicina, l'etica della politica e il termostato del forno

Molti cicli ormonali del corpo umano, ma anche il termostato del forno, funzionano per feedback. Come funziona un sistema a feedback? Esiste un recettore (un termometro nel caso del forno) che quando percepisce uno stimolo (bassa temperatura) produce una reazione (accensione del forno) che causerà la scomparsa dello stimolo (raggiungimento della temperatura prefissata) e provocherà lo spegnimento della risposta. Ovviamente il sistema ha una latenza, per cui dallo stimolo alla sua scomparsa passa un certo tempo, tanto più il sensore è sensibile, tanto più breve è la latenza.
Il sensore del fabbisogno di medici, che pure è un meccanismo di feedback quasi banale, ha una latenza lunghissima. Vediamo perché.
La stragrande maggioranza dei medici italiani lavora nel settore pubblico, pertanto è facilissimo sapere quanti sono, quanti anni hanno e quanti ne servono.
Questi sono i medici del SSN che andranno in pensione ogni anno da qui al 2040. Si tratta di specialisti impiegati negli ospedali o sul territorio, mentre i medici di famiglia, che sono liberi professionisti convenzionati fanno conto a parte, con analogo andamento. Ovviamente questi dati sono del 2016, ma si sarebbero potuti ottenere nel 2010 o nel 2000.

 fonte: Anaao-Assomed 2016

La prima domanda che ci potremmo fare è: come mai tra il 2021 e il 2025 andranno in pensione il doppio dei medici che tra il 2036 e il 2040?
La risposta è banale, negli anni ’70, in seguito alla rimozione del numero chiuso di Medicina si è assistito a un picco di iscrizioni, seguito da un picco di laureati e da un picco di assunzioni nel SSN che quindi ad oggi è costituito in larga misura di 60-65enni che andranno in pensione a breve. Questo picco delle assunzioni negli anni 80 ha causato, come logico, un blocco delle assunzioni dei 20 anni successivi, come si vede dalle proiezioni pensionistiche.
Come funziona un buon sistema a feedback? Semplice: nel 2010 si sa che nel 2021 il fabbisogno di medici specialisti per il solo SSN sarà di circa 6000 unità/anno + 4000 per la medicina generale, pertanto si programma un pari numero di borse e, a ritroso, un numero uguale + 10% (tasso di abbandoni) per l’accesso a medicina. Tutto insieme? Ovviamente no, bisogna tenere conto del tempo. Per avere 6000 specialisti e 4000 medici di famiglia nel 2021 avrò bisogno di 10.000 abilitati nel 2016 e di 11.000 ingressi a medicina nel 2010.
Nel 2010 i posti a medicina sono stati 9000 (e già i conti non tornano), ma soprattutto i contratti di specialità per il 2016 sono stati 6000 + quasi 1000 per la medicina generale, mancheranno quindi nel 2021 circa 3000 medici specialisti per rimpiazzare i pensionamenti di quell’anno.

Oggi, anno 2018, mancano medici. Lo strillano i giornali, lo urlano i concorsi pubblici per posti a tempo indeterminato che vanno deserti. Venite a fare i medici che c’è bisogno o il SSN collasserà!! Ma di che medici c’è bisogno oggi? Di specialisti e di medici di famiglia, quelli di cui avrebbero dovuto programmare l’accesso tra il 2006 e il 2009 e che ormai è troppo tardi per formare.

Perché il feedback si è rotto e non è stato programmato un adeguato numero di borse in specialità quando era tempo? Perché formare uno specialista costa 25.000€/anno e tutti questi soldi non ci sono mai stati. Ma i governi, di volta in volta, hanno aumentato il numero programmato a medicina (che tanto è gratis) che è così passato da 7300 nel 2007 a 10.000 nel 2011.
Se ne deduce che esistano dei medici laureati a spasso (o all’estero). Quanti sono questi medici che non hanno avuto accesso alla formazione specialistica? Facile a dirsi. Tra il 2006 e il 2016 si sono laureati circa 76.000 medici e sono stati banditi circa 57.500 posti in specialità e 10.000 borse per la medicina generale. 8500 medici sono rimasti a spasso negli ultimi 10 anni perché non hanno potuto accedere a una formazione specialistica, basterebbe recuperare questi per supplire alle carenze.

Sempre oggi, anno 2018, si laureeranno 9300 medici che dovrebbero, a rigor di logica, supplire le carenze di specialisti del 2023. Carenze che sono previste in 5600 unità (+ medicina generale). Se offrissimo una borsa di specialità a tutti i laureati di quest’anno quasi metà di loro non potrebbe lavorare, pur trovandosi nel momento di massima carenza del sistema.

Ma proiettiamoci al 2020, anno per il quale è attesa la laurea di coloro che hanno avuto accesso a medicina nel 2014 e che, grazie a un maxi-ricorso, sono quasi il doppio dell’atteso… 18.000 anziché 10.000. Questi 18.000 andranno a colmare le carenze di organico del 2026 che sono previste in 3700 unità. Nei prossimi 10 anni produrremo una disoccupazione medica mostruosa, laureati che sono costati allo stato centinaia di migliaia di euro saranno costretti ad emigrare in paesi dalla politica sanitaria ancora meno lungimirante della nostra.

Il “governo del cambiamento” questa cosa la sa già. Ma sapete perché pensa di abolire oggi il numero chiuso a medicina? Perché 60.000 diciannovenni iscritti al test di medicina votano domani, ma 60.000 disoccupati di lusso, nel 2030 non sapranno più dove andarli a pescare Di Maio e Salvini.
Non entro nemmeno nel merito del se e come debba essere fatta una selezione dei candidati all’accesso all’università. Tanto meno mi pronuncio sulla spinosa questione della qualità della didattica in una facoltà che dovrebbe essere pratica come la nostra. Né mi pronuncio sul superlavoro a cui costringeremmo un sistema universitario già allo stremo delle forze e in penuria costante di personale docente. Il problema è più basilare: uno Stato col nostro debito pubblico non può permettersi di formare 60.000 medici all’anno quando il fabbisogno è di 3000. Non può permettersi di proiettare decine di migliaia di giovani ad una disoccupazione certa.
La politica si deve fare (anche) con i numeri, non con le boutade populistiche pagate a carissimo prezzo sulla nostra pelle. Alla politica manca ormai, da troppo tempo, l’etica. E agli elettori manca l’intelligenza di comprendere il concetto di sensibilità del termostato: le decisioni di oggi influenzeranno la temperatura di domani e se oggi abbiamo freddo tra dieci anni potremmo trovarci all’inferno.

martedì 7 agosto 2018

Socio-Soccorso


La signora che mi siede di fronte dimostra meno dei suoi 80 anni e, dopo cinque minuti abbondanti di colloquio non mi è ancora chiara la ragione dell'accesso. So solo che è stata registrata insieme al marito, il quale in questo momento è nella stanza a fianco con il mio collega. "Mio marito fa il matto, perchè non capisce che invecchio anche io. Lui ha 95 anni e si è preso la moglie giovane, ma io ormai ho 80 anni sa? E lui non lo capisce. E ho sette operazioni sulle spalle!". Inizia ad elencarmele, a partire dalla immancabile e piemontesissima, la parotomia (meglio nota agli addetti come isterectomia laparotomica).
"Perchè sa, io ho patito la fame dai 4 ai 14 anni, e poi di nuovo dai 20 ai 24. L'unico periodo in cui sono stata bene è stato quando sono andata in Inghilterra a fare l'infermiera... il mio errore è stato tornare, ma sa... avevo la mamma malata e cosa vuole fare, non potevo mica restare là". "Mio marito ha sempre avuto un brutto carattere, un dittatore, vuole comandare sempre lui. Io gliel'ho detto, meno male che non ti conoscevo, se no mica ti sposavo con questo carattere!" "Anche i figli... ne ho 3, ma nessuno vuole occuparsi di suo padre, con tutto quello che gli ha fatto quando erano piccoli". "Poi una si immagina di passare una vecchiaia tranquilla ma..." e qui la voce le si spezza in pianto "... Con quello lì".
"Quello lì" avrebbe bisogno dell'assistente sociale, ma, anche se avrebbero diritto all'accompagnamento, soldi non ce ne sono e chissà quando verrà attivato. D'altro canto loro di soldi per pagare un ricovero in struttura privata non ne hanno e così all'una di notte me li ritrovo in pronto soccorso entrambi. Perchè lui ha urlato svegliando tutti i vicini che la moglie lo faceva morire e lei in preda alla disperazione ha chiamato il 118, poi per un attacco d'ansia ha detto ai volontari che aveva male al petto ed eccoli qui tutti e due.

Il paziente successivo di anni ne ha meno di venti ed è già un tossico notevole. Cannabinoidi, crack, eroina, amfetamine. I genitori, disperati, l'hanno cacciato di casa, ma il ricovero dove dorme ad Agosto è chiuso per ferie e lui non ha più un posto dove stare. Cuore di mamma l'ha ripreso in casa, sfruttando l'assenza del papà per un viaggio di lavoro. Dopo poche ore, però, in seguito ad un problema informatico di cui capiamo poco il ragazzo, che ora parla con poche frasi esplosive e si sofferma su dettagli di nulla importanza perdendo il senso generale del discorso, dà di matto, la mamma si spaventa e chiama il 118 per farlo vedere da uno psichiatra.
Quando arriva però il ragazzo è tranquillissimo, sono le due di notte e non posso chiamare lo psichiatra reperibile per un litigio di famiglia.

La coppia che arriva dopo sembra quasi normale, a confronto. Lui, paziente, zitto. Lei, moglie, che parla per tutti e due e anche di più. Lui ha avuto una serie di ictus e anche se è ancora giovane, porta molto male i suoi anni. Lei non si rassegna a vederlo meno performante di un tempo, a tratti assente, talvolta sofferente e l'ha già portato da ogni specialista possibile e sottoposto ad ogni indagine immaginabile. Quando le spiego che ulteriori indagini sarebbero inutili, perchè ormai sappiamo qual è il problema di suo marito, ma purtroppo non è uno di quei problemi che la scienza attuale è in grado di risolvere perchè il cervello non ricresce, è come se parlassi ad un muro. "Deve pure esserci qualcosa, qualche indagine più approfondita, qualche esame che si può fare, qualche cura per farlo star meglio". L'eterna condanna della medicina moderna, schiacciata da un lato dai medievalisti che "è tutto un complotto, la medicina non funziona, l'HIV non esiste, la chemioterapia uccide i pazienti, i vaccini servono ad arricchire le case farmaceutiche" e dall'altro chi non si rassegna ai limiti della scienza e pretende una soluzione.

La signora che mi compare in carrozzina, 82 anni ben portati, è reduce da un tumore della laringe. Per sopravvivere si è dovuta sottoporre ad un intervento molto demolitivo, ora ha una tracheotomia (un buco in gola per respirare) e una gastrostomia (un buco nello stomaco per mangiare). Non può più parlare nè urlare, per questo arriva con una lavagnetta e un pennarello rosso con il quale traccia rapidamente e accuratamente, con quelle belle grafie che non si vedono più, una frase terribile "non ne posso più, voglio morire". A fianco a lei la figlia psicoterapeuta, che un po' legge, un po' anticipa, un po' indovina, un po' interpreta quello che la mamma vuole dire. La signora, di tanto in tanto, sfoga tutta la sua frustrazione per non essere compresa chiudendosi gli occhi con le mani e morsicando con la bocca senza denti un fazzoletto intriso di lacrime.
Il colloquio, tra interpretazioni della figlia e lettura della lavagnetta, richiede un sacco di tempo. In sostanza la signora, che fino a prima del ricovero era perfettamente autonoma, sta faticando ad adattarsi a questa nuova vita silenziosa e con assistenza continua. La badante non la aspira bene, il figlio ogni tanto si altera, lei non riesce a scrivere abbastanza in fretta ciò che vuole o intende e vorrebbe solo essere lasciata in pace. Al culmine di questo litigio ha radunato tutti gli ipnoinducenti che aveva in casa dichiarando di volerla fare finita. Poi se n'è pentita ed è scappata. Il lungo racconto deve averla calmata, o forse è solo sufficientemente intelligente da capire che per essere dimessa deve dichiarare di non aver veramente pensato di uccidersi.
Eppure quanto deve essere terribile una vita senza voce.
Quanto deve essere terribile tentare di stare vicino ad un figlio tossicodipendente, gestendo contemporaneamente i giudizi della gente, che se hai un figlio malato ti compatisce e se ce l'hai tossico ti accusa.
Quanto deve essere terribile vedere un proprio caro deteriorarsi a poco a poco, sapendo o temendo che non c'è niente da fare.
Quanto deve essere terribile invecchiare a fianco ad un compagno che invecchia più di te e non dà mai spazio alle tue lamentele.

Chi si fa carico di tutta questa sofferenza? La famiglia, se c'è e finchè dura. E quando la famiglia non ne può più, laddove c'è una necessità qualsiasi, c'è un posto sempre aperto, notte e giorno, che offre qualcuno con cui parlare e a cui chiedere una soluzione: il pronto soccorso. Solo che il pronto soccorso non è pensato per questo. Non abbiamo soluzioni se non un po' di tempo da dedicare, un po' di empatia da regalare e, se proprio va bene, una barella per dormire una notte. I più fortunati ottengono un sollievo di qualche ora, un esame inutile che placherà la loro ansia e li illuderà di poter resistere ancora un po'. Fino al prossimo passaggio in pronto soccorso.

Qualcuno torna a casa a mani vuote, come la madre del tossico, che se lo riprenderà in casa perchè lui rifiuta di dormire in barella fino alla visita psichiatrica del giorno dopo. Qualcuno trova conforto spontaneo in quello che accade, come la signora della tracheotomia, che torna a casa di umore leggermente migliore, o quanto meno pronta di nuovo a combattere.

Qualcuno, come la prima signora, vince alla lotteria. "Ho saputo che tenete mio marito questa notte! Grazie! è davvero un regalo che mi fate, almeno posso dormire una notte tutta filata senza che lui mi svegli ogni ora per andare in bagno e posso riposare un po' le orecchie senza che mi racconti di tutte le sue avventure prima del matrimonio! Grazie davvero! Siete proprio di buon cuore".

Bastasse quello, signora, bastasse quello.



lunedì 7 maggio 2018

Le birrette ai tempi dei cinquestelle


Siamo un paese di alcolisti, bisogna prenderne atto.
Ma non di alcolisti fastidiosi come gli inglesi che bevono pinte su pinte a stomaco vuoto e poi vomitano nella metropolitana. Noi siamo più come quei vecchietti che "Bevo solo un bicchiere di vino a pasto, ma quello buono, che faccio io" e che poi vanno in astinenza 48 ore dopo il ricovero perché gli ospedali si ostinano inopinatamente a servire solo acqua.
Non sto scherzando. Secondo la definizione di alcolismo basta bere più di un bicchiere di vino (o di una birra piccola) al giorno o più di 4 bicchieri in una sola occasione per rientrare nella categoria... Fatevi due conti sull'ultima festa a cui avete partecipato.

L'alcol è connaturato alla nostra cultura: ci saranno tanti italiani non bevitori, ma vi sfido a trovare un vero, autentico astemio. Vi sfido a fare un tiramisù senza un goccio di rum nella crema o la torta di nocciole senza accompagnarla con lo zabaione o il risotto senza sfumarlo col vino bianco o il ragù senza vino rosso. Vi sfido ad andare ad una sagra in cui non scorra vino a fiumi, ad andare a cena dagli amici senza portare "una bottiglia buona" a festeggiare Capodanno senza stappare lo spumante, a mangiare una pizza senza birra.
In questo contesto i provvedimenti, sempre più disastrosi, della SindacA a 5 stelle hanno la stessa lungimiranza politica del sig. Rino, l'inquilino rompicoglioni del primo piano del palazzo dove abitavo da piccola che ci bucava il pallone con la speranza di poter proseguire meglio la siesta e che otteneva, per tutta risposta, l'odio del palazzo e i cori di sfottò dei bambini.
D'altro canto dagli inventori di uno vale uno e del potere al demerito non si può pretendere l'acume politico di Berlinguer.
Ma facciamo un breve, brevissimo riassunto.

Succede che, dopo il 2006, grazie a una gestione criticabile e dispendiosa, ma a posteriori abbastanza efficace, Torino acquista la fama di città giovane e vivibile. Succede che decine di migliaia di studenti universitari ci si trasferiscono. Poi, un po' per sfiga, un po' per mancanza di soldi, permessi ecc. succede che a Torino chiudono, negli ultimi 4-5 anni, un sacco di locali, tra cui i mai troppo compianti e celeberrimi Murazzi, luogo di devastazione semi-controllata e semi-isolata a due passi dal centro e a dieci metri di profondità. Succede che, a meno di instaurare una dittatura stile Iran, la gente che al sabato sera è sempre uscita continua pervicacemente a voler uscire. Chi è abituato a frequentare i Murazzi si sposta in Piazza Vittorio, chi viveva agli imbarchini del Valentino passa in San Salvario, chi non ne può più di San Salvario si sposta in Vanchiglia.
I residenti, come il sig. Rino, protestano per tutto il casino che va a formarsi per strada: i locali d'altra parte sono piccoli e il clima è decisamente più favorevole che in Canada o in Norvegia ed è normale che gli avventori apprezzino i tavolini all'aperto (che solo i torinesi chiamano, alla francese, dehor).

La giunta pentastellata, con abile mossa, nel 2017 emette un'ordinanza: niente alcol da asporto dalle 20 alle 8 nei quartieri più interessati dalla Movida: San Salvario, Vanchiglia e Centro.
Ora c'è solo una cosa che stimola gli italiani ad agire: vietare qualcosa. Il nostro popolo ha imparato nei secoli a sopravvivere sotto le più svariate dominazioni, ricavandone un allegro sprezzo dell'autorità e la profonda convinzione che fregare lo stato sia giusto e divertente.
Vieti l'asporto? nessun problema, si compra il vino al supermercato h24 e lo si beve per strada. Vieti di bere per strada? sono già pronti camelback e botti da San Bernardo o bottiglie di gin-tonic travestite da schweppes. Vieti San Salvario? Tutti si spostano su Corso Moncalieri e si ricomincia da capo.
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Me li vedo i consiglieri comunali alle prese con questo grattacapo. Peggio del signor Rino del primo piano. "Il nostro progetto è inaspettatamente fallito, vietare l'alcol da asporto non basta! La gente prende i cocktail nei locali e poi esce a berli al di fuori degli spazi consentiti"
"Eh già, il nemico è molto più astuto del previsto, pensa che alcuni hanno addirittura iniziato a cambiare quartiere"
"E ora come si fa?".
L'assessore alle politiche giovanili propone di creare degli appositi festival in periferia, che raccolgano i giovani e li allontanino dal centro e dai sig. Rino dei quartieri ricchi, ma viene immediatamente schernito: "Quanto credi che ci metteranno gli abitanti della periferia a lamentarsi di questi festival? Dovremo ricominciare tutto da capo".
"Vietiamo del tutto l'alcol alla sera!" interviene allora l'assessore all'innovazione e progresso cittadino.
"Ma non vi sembra irrealizzabile?" commenta qualcuno "Ma non pensate che perderemo consensi?" azzarda un altro
"Non pensi a tutti i consensi che ci deriveranno dalla QuieteDeiResidenti"
"Ma a me questa QuieteDeiResidenti sa un po' di SilenzioDegliInnocenti o di AlbaDeiMortiViventi"
"E non ti attrae forse l'idea di una città che all'alba è pacifica e silenziosa e può godere del sano riposo che deriva dalla morte di tutti i suoi abitanti?"
"Ma non pensate che i gestori dei locali possano protestare?" interviene il solito piantagrane "E come si fa con l'asporto e i vari foodora? Mica vogliamo far fallire questa risorsa di garanzie e di diritti per i giovani lavoratori!".
"Nessun problema - continua l'assessore alla genialità e al proibizionismo - Abbiamo pensato a tutto".

Ecco il risultato.

Se non avete voglia di leggere l'articolo originale ve lo riassumo: dalle 21 è possibile ordinare nei ristoranti e locali bevande alcoliche solo se accompagnate a piatti caldi e in misura "proporzionata" (1 bicchiere per porzione). Ma solo fino alle 23, dopodiché tutti a casa a vedere ballando con le stelle. Idem per l'asporto: ogni pizza uscirà con la sua birra e se per caso con i 50 gradi di agosto desiderate la seconda birra... pizza in omaggio! Ma sempre rigorosamente prima delle 23. Prevedo apocalittiche gare di ingollamento pizze che manco a San Francisco con gli hot dog.
Saranno limitate, anche se non si sa ancora in che modo, la vendita di bevande alcoliche anche nei supermercati e distributori. Nulla si sa di come fare a trasportare gli alcolici di casa in casa: sarà consentito portare bottiglie chiuse? E chi verificherà che le stesse non vengano invece utilizzate per i demoniaci boteillon?
Ancora non si sa cosa ne sarà di piole e vinerie che da secoli a Torino servono solo piatti freddi come acciughe al verde e uova sode. Probabilmente sarà consentito ubriacarsi ma solo in orario lavorativo, o comunque prima delle 21.
Diventeremo come l'Inghilterra, dove il venerdì è riconoscibile dal casino che si sente per strada. E il casino è prodotto da centinaia di persone vestite da ufficio che chiacchierano, spesso sotto la pioggia, con la loro quinta pinta di birra in mano, rigorosamente servita in boccali di vetro. C'è rumore, inevitabilmente. A Londra ce n'è così tanto che sembra di camminare in un alveare. I residenti se ne fanno una ragione, magari scendono anche loro a bersene una. Alle 19, quando i pub chiudono, sono tutti ubriachi come delle pigne e tornano a casa cantando e rumoreggiando. Ma prima delle 21, s'intende. Questo sì che è progresso.
Forse potremmo rispolverare anche l'idea degli speak easy, come ai tempi del proibizionismo anni '20. Anzi, prevedo fantastici toga party a tema: capelli alla maschietta, bretelle, bocchini per le sigarette, whiskey distillato in casa e parola d'ordine per accedere a un locale nascosto sotto ad una cabina del telefono.
Ci sono voluti vent'anni per togliere a Torino la fama di città che muore al tramonto, per insegnare ai pizzaioli a sfornare anche dopo le 22, per convincere i ristoratori che non tutti gli avventori sono piemontesi che amano mangiare alle 19.30 e anche chi va al cinema al primo spettacolo ha diritto a cibarsi uscito dalla sala... e ora tutto è frantumato grazie a questa geniale mossa politica.
Me li immagino gli entusiasti sig.ri Rino che finalmente ad Agosto potranno aprire le finestre e godere della placida quiete della città deserta, anzi morta. Nessuno per strada, solo un lontano coro di ubriachi. Possibile? Ma da dove arriverà mai? Chi mai può osare sfidare apertamente le ire della sindacA? Sono gli inquilini del piano di sopra. Hanno regolarmente acquistato vino e superalcolici in orario diurno e ora stanno dando una festa openbar che si protrarrà sicuramente per tutta la notte.
In fondo è questo che accade in Iran, dove l'alcol è proibito: lo si distilla a casa e si organizzano feste. E lì hanno pure la polizia politica che può arrestarli. Ecco, io fossi la SindacA almeno su questo ci farei un pensiero: se proprio devi prendere spunto almeno fallo bene, Chiara!

martedì 1 maggio 2018

Ma come ti permetti?




Da quando esiste la TV satellite ho un solo terrore: che un giorno mi suonino alla porta Enzo e Carla di Ma Come ti Vesti? Il programma più violento della TV.

La puntata inizia sempre con gli amici di qualcuno (che è praticamente sempre una lei) che si lamentano di come vesta male e di come sia insopportabile vederla così. Le lamentele principali sono tre: è troppo sportiva, è troppo originale o bizzarra e non porta i tacchi. Da notare, anche, che la lei in questione non è mai brutta, al massimo “poco curata” e non ha acconciature elaborate o trucco pesante.
Seguono riprese “di nascosto” della vittima nella sua normale interazione sociale, perché tutti possano apprezzare quanto sia obbrobrioso il suo stile. A questo punto, come dei veri supereroi, Enzo e Carla compaiono a tradimento e scatta l’operazione “Ma come ti vesti?” vera e propria. Questi due tizi dai gusti improbabili si insinuano, infatti, a casa della malcapitata e le svuotano il guardaroba al grido di “Ma che schifo questo” “Ma come fai a mettere quest’altro” “Ma che orrore” “Ma questo colore non va più di moda dal 96” e così via, con la poveretta che protesta e cerca inutilmente di salvare dal bidone della spazzatura i pezzi che le piacciono di più.

A questo punto Enzo e Carla elargiscono consigli come se fossero detentori della verità assoluta e concludono con un “Mai più con…” questo o quel capo o questo o quell’abbinamento.
Alla vittima viene consegnata una carta di credito ed è libera di andare a fare shopping in giro tentando di attenersi alle indicazioni che le sono state date.
Ne risulta, in genere, un miglioramento del look non completamente snaturante della personalità del soggetto. La stessa ragazza che prima portava solo scarpe da ginnastica e tute acetate magari compare con un paio di jeans con le paillettes e una maglia moderatamente elegante. Insomma una cosa normale.
Ma il programma è perverso e mentre la malcapitata prova, commenta e sceglie i capi, Enzo e Carla, a casa, seguano in diretta la scena e la deridano apertamente con “Non ha capito niente” “Proprio non ce la fa” “Che orrore” e così via.




A questo punto i due corrono per strada a fermarla, la insultano ancora un po’ e la accompagnano in una boutique di loro scelta dove si incaricano di scegliere e abbinare personalmente i capi mentre alla cavia resta il ruolo passivo di provarli di controvoglia.
Lo ammetto: ho sempre avuto la fobia dei negozi con lacommessa. Lacommessa è quel genere di creatura che ti guarda in faccia e ha già deciso cosa venderti e non c’è modo che tu possa esprimere perplessità riguardo a taglia/colore/modello di quello che ti sta facendo provare. Se sei fortunato e hai l’età della ragione puoi mettere da parte l’orgoglio e dartela a gambe il prima possibile, se invece sei un bambino puoi solo sperare che il genitore che ti accompagna non soccomba al “Ma ti sta così cariiiiino” de Lacommessa più deleterio del canto delle sirene di Ulisse. Da questo punto di vista sono grata all’invenzione dei grandi magazzini dove puoi girare liberamente, decidere cosa provare, nasconderti in un camerino, non farti vedere da nessuno e uscire con la merce che vuoi acquistare senza che nessuno intervenga con il proprio parere.
Questa parte del programma rappresenta quindi la materializzazione del mio incubo infantile e, lo ammetto, lo guardo solo per vedere lo sguardo riluttante della malcapitata e solidarizzare con lei. Un po’ come uno yeti che guarda King Kong, insomma.
La scena si svolge così: questa povera tizia è costretta a indossare cose che solo nel mondo fantastico e popolato di unicorni che costituisce il cervello di Enzo Miccio potrebbe essere considerato “elegante”. Pizzi ovunque, gonne con strascichi chilometrici, pantaloni d’argento attillatissimi e scintillanti, sandali di almeno 15 centimetri con cui neanche Naomi Campbell sarebbe in grado di percorrere più di 2 metri, borsette con nappi, frange, nastrini. Abbinamenti di colori improbabili e soprattutto completamente estranei alla personalità del soggetto che stanno vestendo e che è ridotto esclusivamente al proprio corpo.
La poveretta si lamenta e ad ogni “Non vedi com’è bello?” risponde con un incerto “Ma veramente a me…” ma non fa in tempo a finire la frase che viene sovrastata da un altro commento entusiastico di Enzo o da un commento sarcastico di Carla.
Ovviamente i due comprano per la tapina tutte le mise pre-abbinate e si passa alla stazione successiva: coiffeur e trucco.
E qui il messaggio è ancora più evidente: così come sei fai schifo, per essere accettata dalla società devi attenerti a certe regole, i capelli di questo colore non donano con il tuo incarnato, molto meglio una tinta così, con i colpi di sole cosà e il trucco che schiarisce, amplifica, colora, modella. Mica puoi pretendere di farti vedere così come sei, che se anche non sei nato con un aspetto repellente comunque dovresti un minimo sforzarti per renderti più gradevole alla vista.
Il finale ovviamente vorrebbe essere quello di una favola: la novella Cenerentola scende le scale con uno dei completi scelti da Enzo e Carla e finalmente riscontra la loro approvazione incondizionata, uno la riempie di complimenti mentre l’altra descrive minuziosamente pezzo per pezzo i capi. E si tratta di questi capi, non so se mi spiego.





Per finire in bellezza la poveretta fa il suo nuovo debutto in società, con le amiche che a momenti non la riconoscono e tutti che inneggiano alla bravura di Enzo e Carla, capaci di risolvere i problemi anche dove non esistono. La Cenerentola, ovviamente, non può che essere loro grata di essere stata trasformata da paria del suo gruppo di amiche nell’ennesima brutta copia di Chiara Ferragni.
Ora, sarebbe troppo facile fare una critica sociologica a questo programma, immaginarsi le conseguenze sulle adolescenti socialmente isolate e magari, con un briciolo di abilità dialettica, dimostrare che se una volta il bullismo non era un problema è perché la TV non trasmetteva “Ma come ti vesti” e “Vite al limite” (non lo penso, ovviamente. La colpa è dei cellulari e della nostra percezione distorta del mondo da quando c’è internet).
Non è mia intenzione fare niente di tutto questo, non voglio scagliarmi contro la televisione cattiva nè difendere un’immagine non superficiale della donna conducendo una campagna contro Enzo Miccio. Solo noto che, quando accendo la televisione per sentire del rumore di sottofondo mentre mi dedico ad altro, “il banco dei pugni” mi fa sorridere, “pronto soccorso H24” mi fa incazzare, ma “ma come ti vesti” mi fa proprio soffrire.